Scegliere un genere per costruirsi una carriera può essere un’ottima idea, l’importante è farlo bene. Bennett Miller ci sta riuscendo, e Foxcatcher ne è la conferma, concentrandosi su un genere rischioso come il biopic, in cui è facile infatti essere banali, agiografici, poco obiettivi, ma come sempre accade l’importante è trovare le storie giuste.
La prima, quella di Capote, era quella più semplice e paradossalmente è anche quella meno riuscita, anche a causa della strabordante interpretazione di Philip Seymour Hoffman e dell’icona di cui veniva raccontata la storia.
Ragazzo intelligente, Miller ha capito presto che bisogna andare a cercare le storie che nessuno racconterebbe, come quella, straordinaria, di Billy Beane, il manager del baseball protagonista di Moneyball. Oltre alla fortuna di avere a disposizione una sceneggiatura firmata da Steven Zaillian e Aaron Sorkin, due monumenti della scrittura cinematografica, la mossa di lavorare sul film sportivo, genere amatissimo dal pubblico americano, ha portato i suoi frutti.
Tornare sul luogo del delitto era naturale, l’importante era trovare una storia altrettanto intrigante. Come quella di Foxcatcher. Lo strano incontro tra i fratelli Schultz, olimpionici americani di lotta greco-romana, e il miliardario John du Pont, è una di quelle vicende che sembra nata dalla mente di un bravo sceneggiatore.
Invece è tutto tragicamente vero e Miller costruisce un film sfaccettato, cupo, claustrofobico, raccontando la rapacità dei desideri dei tre protagonisti, uomini in cerca di riscatto e vittoria, inseguendo il sogno americano. Lo faranno, come spesso accade, nel modo sbagliato. Un Requiem for a Dream e l’altra faccia del cinema sportivo. In Foxcatcher non c’è nobiltà, i tre lottatori sono semplicemente meschini ed egoisti, fino alle estreme conseguenze.
Tragedia umana devastante, Foxcatcher è il perfetto contro altare di Moneyball, poema dell’istinto che prevale sulla ragione. Qui invece la ragione uccide l’istinto.