Ci sono cose della vita con cui ognuno di noi, chi prima chi poi, è costretto a fare i conti. La perdita dei propri genitori è una di queste. Un momento inaccettabile a cui si preferisce non pensare, evitarlo fin quando non siamo veramente costretti dagli eventi. E a quel punto è troppo tardi.
Anche per Nanni Moretti lo è stato, perché Mia madre non parla non della perdita e del dolore che questa può causare, ma dell’accettazione di una condizione, quella di orfano, a cui è impossibile abituarsi. Lui ci prova, come sa fare, guardando le cose mettendosi al fianco dei suoi personaggi, come spesso chiede il suo alter ego Margherita Buy agli attori del film che sta girando, mentre la mamma è in un letto d’ospedale, aspettando una guarigione che non arriverà.
L’attesa, e il disperato tentativo di riempire un tempo che si dilata e si contrae continuamente, troppo breve per dire tutto quello che non si è detto, troppo lungo per sopportare la sofferenza di una persona amata. Da entrambe le parti. Moretti prova a ridere, nervosamente, facendo finta di niente mentre cerca l’equazione per fermare le lancette e magari portarle indietro. Lo fa mettendo in scena un dramma familiare dalla straordinaria asciuttezza, un gioco meta-cinematografico semplice ed efficace con cui si rende conto che la realtà di chi inventa è ancora più tremenda. Margherita e Giovanni sono l’anima divisa in due di Nanni, attorno a loro il vuoto riempito da chi li sta per abbandonare.
Mia madre, un film che mette paura sin dal titolo, una tragedia greca in latino, una commedia in cui il grottesco è il cinema stesso, un dramma straziante che a sprazzi si trasforma in horror psicologico, ma anche una storia d’amore come solo un melò perfetto sa essere. Moretti gioca con i generi, parla poco lui, fa parlare molto gli altri, per e contro se stesso, commuove e si commuove, fin quando non si rende conto che il tempo è limitato, con il film finisce tutto, ma come insegna il cinema, c’è domani.
Perché domani è un altro giorno.