Rupert Wyatt, il regista de L’alba del pianeta del scimmie, ha dato al film un look e dell’atmosfere estremamente efficaci. The Cinema Show lo ha incontrato in esclusiva
Due film indipendenti all’attivo, neanche troppo di successo, un curriculum interessante ma non da strapparsi i capelli. Eppure Rupert Wyatt è riuscito a convincere la Twentieth Century Fox che era lui l’uomo giusto per cercare di dare nuova vita a una saga che Tim Burton era riuscito a sotterrare con uno dei film più brutti dell’ultimo decennio. Per avere successo nell’impresa, Wyatt ha operato con lucidità e programmazione, come ci ha raccontato durante l’intervista che ci ha rilasciato all’indomani della premiére londinese del film.
Rupert Wyatt, qualche settimana fa ho avuto modo di vedere il reel che aveva realizzato per convincere la Fox ad affidarle la regia di questo film…
Davvero? Non c’è più privacy a questo mondo!
Già, è vero… Sono rimasto molto colpito dalla sua scelta di inserire scene da Un prophete di Jacques Audiard. Mi hanno fatto capire che direzione voleva dare al film…
Un prophete è un film eccezionale e parla di una rivoluzione provocata da un individuo che inserito in un ambiente ostile utilizza la sua intelligenza superiore per manipolare il prossimo e scalare le vette del potere. È quello che fa anche Cesare quando si trova imprigionato con gli altri scimpanzé. Credo siano due situazioni molto affini.
Così come non è un caso che il finale ricordi incredibilmente L’esercito delle dodici scimmie?
Assolutamente, adoro quel film e non sei il primo a farmelo notare, ma c’è anche da dire che il finale che abbiamo scelto è funzionale all’ipotesi di un sequel che si possa basare su un assunto realistico nella prospettiva di uno scontro tra umani e scimmie che porti queste ultime a dominare il mondo. Certo non ci possono riuscire da soli cinquecento esemplari concentrati in Nord America.
Il film ha aperto con ottimi incassi negli Stati Uniti dopo molti timori legati al gradimento del pubblico. Come si sente adesso?
Devo essere sincero: quando ho finito il primo montaggio il film non mi piaceva. Ma dopo avere lavorato per due anni a un progetto di questa portata, la prima cosa che ti viene da fare non è metterti le mani nei capelli e dire a te stesso “Oh mio Dio, che ho fatto?”, ma semplicemente trovare quello che volevi che fosse in fase creativa prima, durante le riprese poi e infine in fase di montaggio.
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Tutto questo sapendo che se non fai un film che ti piace non puoi pretendere che piaccia al pubblico e che paghi addirittura per vederlo. I miei agenti mi hanno detto giusto ieri “Non ti capiterà mai più di avere un successo di critica e di pubblico di questa portata”. Spettacolare. Me ne sto godendo ogni secondo.
E sta già pensando al sequel?
Non me lo hanno ancora chiesto, forse hanno già in mente qualcun altro! Comunque, sì, sarebbe fantastico.
Questa è la prima volta che dirige un film non scritto da lei…
È una sfida, perché nel bene o nel male sei costretto a fare riferimento sempre al materiale che hai disposizione, ma il problema maggiore è entrare in quello che c’è scritto sulla pagina che stai leggendo. Quando scrivo ciò che so già che girerò, non ho bisogno di capire che atmosfere e che visione devo dare alla singola scena o a un momento particolare, lo so, perché l’ho scritto io.
In questo caso il processo è stato proprio capire il film in un giusto tempo per dargli una direzione, correggere in corsa quello che non andava e trovare nuove idee e soluzioni visive e narrative che lo arricchissero. La finestra disegnata nella cella di Cesare, per esempio, è un’intuizione venuta fuori durante la pre-produzione.
Rispetto a Il pianeta delle scimmie del 1968, che era un’opera molto camp, che tipo di atmosfere e toni voleva che avesse il suo film?
Volevo che fosse il più realistico possibile. La tendenza a Hollywood quando si fanno operazioni produttive come questa è quella di non prendersi troppo sul serio, che è un punto di vista condivisibile, perché ovviamente vuoi che il pubblico si rilassi quando va al cinema.
Ma sono anche convinto che spingere troppo su quest’aspetto ti faccia correre il rischio di smettere di credere a ciò che si sta vedendo e nel nostro caso il rischio era molto alto, perché parliamo di una creatura che conosciamo molto bene e che diventa più forte e intelligente di noi. Certo, si tratta di fantascienza, quindi non volevo essere pedante, ma mi interessava avere l’approccio che ha avuto Christopher Nolan con Batman, ovvero farlo sembrare vero.
Uno degli elementi più interessanti de L’alba del pianeta delle scimmie è il confronto dei processi evolutivi tra le menti di scimpanzé ed esseri umani…
Sono affascinato da ciò che è possibile raggiungere come razza umana e come singoli individui dal punto di vista dell’evoluzione cerebrale, dei traguardi a cui si può arrivare e di come una cosa del genere possa addirittura distruggerci.
È logico che ci siamo dovuti prendere delle licenze cinematografiche in questo senso, dando al farmaco che viene sviluppato dal personaggio di James Franco un’efficacia straordinaria, ispirandoci a Risvegli, un film che era però basato su fondate ricerche scientifiche, ma questo elemento era fondamentale per me, così come di conseguenza mostrare l’evoluzione di una specie in contrapposizione con l’involuzione della nostra, tutto sotto lo stesso tetto.
Per questo e molti altri elementi, L’alba del pianeta delle scimmie ha un respiro sovversivo neanche troppo velato. Una scelta voluta anche da Rupert Wyatt?
Sì, diciamo che la rivolta degli scimpanzé è una specie di controrivoluzione culturale nei confronti di una società al collasso. Anche per questo ho inserito in molti punti del film elementi della nostra contemporaneità che evidenziano il difficile momento politico e sociale che stiamo vivendo su scala globale.