Se la serialità prende le distanze da qualcosa che ha segnato una generazione, un prodotto filmico o artistico in genere, il valore del prodotto originario scende? Per tanto tempo abbiamo risposto di no. Oggi non ne siamo più tanto sicuri. Complice soprattutto il ricambio generazionale, il prodotto originario, slegato dal contesto storico che lo ha generato, potrebbe essere soggetto a un’inflazione determinata dall’eccessiva quantità in circolazione, proprio come la moneta.
Curioso che a farne le spese in maniera più evidente sia proprio il franchise (perché ormai di questo si tratta) di Star Wars, ovvero ciò che, nascendo come trilogia di trilogie nella mente del suo primario autore, è stato il predecessore della serialità odierna, ciò che ha generato questo impulso, questa bulimia di sapere cosa c’è stato e cosa ci sarà, privando di fatto lo spettatore della possibilità di continuare con la sua mente a costruire l’universo della galassia lontana lontana.
Secondo spin off della saga, Solo: A Star Wars Story rappresenta pienamente un concetto che questo nuovo bisogno del pubblico è andato a generare: il fan service. La nostalgia, che sempre cattura Hollywood quando c’è crisi di nuove idee, ha comportato che questi nuovi capitoli, e ancor più gli spin off, non cerchino mai di andare realmente verso nuove direzioni, bensì di come puntino solo alla riconoscibilità, al rassicurante sentirsi a casa da parte della fan base (a dire il vero, più di quella di nuova generazione), non solo nei toni del racconto, ma soprattutto nei contenuti e nelle vicende. Intendiamoci: non è che i buoni autori manchino. Ma quella freschezza, la volontà di sperimentare nel linguaggio prima ancora che nella tecnica, e di farlo soprattutto a basso costo, si è per lo più persa.
Questo Han Solo – che veniamo a sapere come mai si chiama proprio così – è già il bocciolo della canaglia più amata da tutti, ma ancora è pieno di ideali, confonde i sentimenti, chiama amici tutti, senza chiedersi cosa l’amicizia sia davvero e spesso non riconoscendo chi amico gli è davvero. Alden Ehrenreich, probabilmente scelto perché il suo sorriso sghembo può ricordare quello di Harrison Ford, non ci prova nemmeno a imitare la leggenda. Scelta saggia la sua, poiché mai avrebbe potuto neppure avvicinarsi al talento naturale, sporco, ruvido di colui che ha segnato il cinema moderno con interpretazioni indelebili. Il guaio è che non ci prova nemmeno la sceneggiatura. Han finisce con l’essere il pretesto, l’anello di congiunzione. Scopriamo come ha conosciuto Chewbacca e Lando (sul quale forse dovremmo aspettarci un prossimo spin off, soprattutto se la Disney continuerà a spremere i limoni fino all’ultima goccia), come finirà al servizio di Jabba, ma ognuno di questi tasselli assume un peso maggiore del protagonista stesso. Fan service: curiosità soddisfatte, per un pubblico di ragazzini ai quali raccontare la favola della buonanotte, pulita di tutti quei lati oscuri che invece hanno fatto la tridimensionalità di Han.
Ron Howard, salito a bordo in corsa, ha preso magistralmente in mano le redini del progetto. Ma la sua regia sempre ottima e dal ritmo impeccabile deve modellarsi su una colonna sonora debolissima e uno script di servizio. Ecco che allora si concentra più sul Millenium Falcon, esso sì grande e immutabile protagonista di tante avventure. È il Millenium che appassiona e persino commuove i fan della vecchia guardia. È il Falcon che seguiamo e che abbiamo timore venga inghiottito da mostri intergalattici (anche se già sappiamo che arriverà su Tatooine), è il Falcon, inquadrato in campi lunghi di kubrickiana memoria, che vogliamo arrivi a quella velocità che fa diventare linee le stelle, fino all’Episodio IV, per darci una nuova speranza.
Nel complesso Solo: A Star Wars Story è un prodotto godibile, ben riuscito, con un ritmo e soprattutto un’ironia che strizza l’occhio alla prima Trilogia. Ma Howard non è Lucas, non ha la reverenza nerdacchiona di un J.J. Abrams ed è troppo autore per restare confinato in qualcosa che non ha sentito suo fin dall’inizio. È forse anche troppo per questo spin off, che sembra presagire altri sequel. E la domanda che rimane è solo una: perché la Forza non viene mai nominata in questo film? Laddove Rogue One era “il migliore dopo l’Impero”, qui siamo di fronte a un prodotto senza alcuna religione. Han è un guascone laico, ma conosce la Forza, sa chi sono i Jedi e ne ha gran rispetto. Non è un ateo, tanto che resta incredulo quando apprende che Luke è diventato un Cavaliere. La Forza insegna: “Fare o non fare. Non c’è provare”. E ancora una volta, qui, non ci hanno nemmeno provato. Meglio non confrontarsi con qualcosa di tanto grande, se non si sa nemmeno dove collocarlo.