Dovevano arrivare, era solo questione di tempo. Parliamo ovviamente dei film sulla guerra in Iraq, così come arrivarono quelli sul Vietnam. Anche l’amministrazione ha lo stesso colore, quello repubblicano, dopo otto anni di presidenza democratica, proprio come quarant’anni fa. Kennedy dal 1960 al novembre del 1963, poi Lyndon Johnson fino al 1968, quindi l’era Nixon fino al 1975. Oggi, dopo otto anni del viril Clinton, siamo nel pieno del secondo mandato dell’uomo che piange sulla spalla di Dio, George W. Bush, che di guerre ne ha fatte due e speriamo la faccia finita così.
Ma se i Sixties erano un periodo di fermento, di lotta, di sacrificio (i due Kennedy, Martin Luther King, Malcolm X), in cui la denuncia di una guerra inutile scuoteva una nazione già segnata profondamente dagli omicidi dei suoi condottieri, oggi la situazione è un’altra.
L’11 settembre ha lasciato una ferita diversa, una paura nuova, la consapevolezza che in qualche modo ciò che è successo sia in parte colpa degli americani stessi. La prima azione di guerra in territorio USA dai tempi di Pearl Harbor è stata, oltre che il gesto di un pazzo fanatico, anche la conseguenza di una politica egemonica nei confronti del mondo, visto come colonia da trattare col bastone e la carota.
La campagna d’Afghanistan, un fallimento, visto che Al Qaeda è ancora viva quanto il suo leader Osama Bin Laden, aveva bisogno di un’appendice che facesse dimenticare agli americani che il loro comandante, il presidente incapace di impedire che le Torri Gemelle fossero tirate giù da due aerei, aveva fallito un’altra volta.
Ecco quindi la guerra ingiusta, nata dalle bugie della politica e responsabile di decina di migliaia di morti innocenti tra la popolazione civile. Anche i militari hanno pagato il loro prezzo, di molto inferiore rispetto al sud-est asiatico, ma più grave per le ragioni che hanno fatto perdere la vita a questi ragazzi.
Adesso il cinema americano denuncia, a iniziato Michael Moore con Farenheit 9/11, sbagliando in buona parte il tiro e facendo più bene che male alla campagna elettorale per la rielezione di Bush. Adesso arriva Paul Haggis, fortunato sceneggiatore (Million Dollar Baby) e ancor più fortunato e sopravvalutato regista, dopo l’inaspettata pioggia di Oscar per Crash.
Nella valle d Elah racconta il dramma dei soldati che in Iraq sono andati e tornati cambiati, diventati bestie per cui la violenza è l’unica maniera di esprimersi, azzerati nella loro umanità dopo aver visto tanta inutile crudeltà per le strade di Baghdad, di Bassora, nel deserto iraqueno.
Eppure, per quanto il messaggio sia importante, Paul Haggis non coglie nel segno, anzi, mette insieme una storia quasi tutta sbagliata, soprattutto confusa, divisa tra l’onore e la disciplina del padre (un comunque fantastico Tommy Lee Jones), che cerca di capire perché il figlio sia stato ucciso sul suolo patrio , e il desiderio di denuncia che si perde tra l’Iraq e la provincia americana.
La guerra continua a casa, proprio come succedeva per i reduci del Vietnam, quelli di Cimino, Ashby, Coppola, ma trent’anni fa l’America ancora aveva dei valori. Ora è tutto diverso.