Passiamo alla storia della Sergio Bonelli Editore, partendo dalla ormai antica polemica sul fatto che i suoi eroi sono spesso stati politicizzati…
Inevitabile. Se sfogliamo tutti i numeri di Tex, a ogni pagina tu dirai destra e io sinistra, o viceversa. E un altro centro, magari. Vecchia roba di almeno 30 anni, ma noi facciamo storie, non politica: papà se faceva un banchiere ladro, era perché gli serviva nell’albo. Ricordo una storia di Tex in Canada, in cui alcuni vedevano nei ribelli le Brigate Rosse, altri i poliziotti. Certo che quando racconti storie vere o verosimili, è facile che ci siano riferimenti alla modernità. Io metto lì spesso le guerre passate, dai ribelli algerini alla legione straniera. Molti li evitano, sono storie diverse da quelle attuali, ma le guerre hanno la pessima abitudine di somigliarsi tutte, c’è sempre la possibilità di identificare e identificarsi. Detto fra noi, leggendo Nathan Never o le nostre altre serie, non ho mai scoperto per chi votano i nostri autori! C’è però un sentire comune che non è mai guerrafondaio.
Qui da lei sono passati tanti grandi autori, da Tiziano Sclavi ad Alfredo Castelli. Ma la mia curiosità è sapere com’era Guido Nolitta…(lo pseudonimo di Sergio Bonelli n.d.r.)
Guido Nolitta? Ci litigavo sempre. Scherzi a parte, ho provato a fare l’autore di testi da giovane, curioso di capire se era davvero così difficile. Qui in due stanze eravamo io, i miei genitori e la cugina, mi sembra, della segretaria attuale. Papà veniva qui a scrivere Tex, perché gli piaceva lavorare in compagnia. Scoprii che era molto difficile. E non avendo una grande considerazione di me, ed essendo molto autocritico, chiesi a papà di poter continuare, perché rileggendomi le mie storie mi sembravano boiate tremende. Ed è successo con Il ragazzo nel far West e Zagor. Poi, un po’ per volta, ho insistito, qualche volta tornavo – in quel periodo leggevo ancora di più e passavo la vita al cinema – e cominciarono ad arrivare consensi che mi hanno rinfrancato. Il pubblico mi seguiva, ho preso coraggio: in quel momento ho capito che quello che piaceva a me, giovanotto già anzianotto, in quegli anni, i ’60 e i ’70, piaceva anche al pubblico. Mi divertivo scrivendo per me stesso, veniva sentito. Non c’era sofferenza, necessità economica di lavorare, solo passione e piacere. Allora ebbi grande facilità nel lavorare, e quasi mi consideravo un dilettante. Ci sono stati anche momenti in cui facevo Tex, Zagor e Mister No. Ora non ce la farei più. E la regola di rispettare il pubblico mi viene da là: i paletti che metto, va tanto di moda questa parola, e di cui mi accusano, nascono da là, dalla mia esperienza, dalle lettere che riceviamo e che leggo. Non sono paletti ideologici, spesso lo sono grafici, perché il “mio” pubblico non vuole il disegnatore “strano”, avvenirista, i nostri lettori sono abitudinari, non amano innovazioni violente. La linea editoriale è la cosa più importante, come ovunque.
Pone mai dei limiti ai suoi autori?
Li pongo anche a me, ho chiuso la mia serie! Oppure, per esempio, amo tantissimo le storie di partigiani, l’ho visti quand’ero piccolo, per me son sempre stati degli eroi, Marcheselli mi regala sempre libri sull’argomento. Ma spesso dividono il pubblico, sei costretto a confrontarti con momenti storici di cui non hai certezza. Così come non parlo dei greci, come tanti professori mi chiedono, o del Risorgimento. Le persone l’hanno studiati fino alla nausea, li annoiano, anche se mi piacciono.
Tanto per i greci e le ambientazioni storiche più ostiche c’è sempre Luca Enoch…
Enoch è diverso. Lui si è guadagnato rispetto, stima e fiducia anche perché ha portato in dote un suo pubblico. A me piaceva molto Sprayliz, meraviglioso. Non era il nostro stile, ma ho pensato che se lui rinunciava a qualcosa, e io pure, poteva essere un bell’incontro. E poi è bravo e serio, si documenta tanto. Lui non si fa aiutare mai nei disegni, ha una dote unica e sa che i suoi lettori sono fedeli a quel suo tratto.
Marcheselli: Leggiamo tutto, anche se è difficile seguire americani e manga. Andiamo più su quelli che chiamano i “bonellidi”
S.B. Noi andavamo alle fiere senza comprare nulla, perché producevamo tutto qua. Ma eravamo curiosi, volevamo sempre fiutare l’aria. _Oggi compriamo tutto quello che esce, anche se spesso inevitabilmente rimaniamo indietro. Ci piace vedere cosa fanno gli altri anche per imparare eventualmente.
M.M. Non ci sono fumetti che invidiamo agli altri. Mi capita spesso di pensare come sarebbero da noi certe serie. Penso a John Doe, Bartoli e Recchioni sono bravissimi, così come Carnevale (a cui abbiamo proposto un Texone, ma per ora niente), ma forse qui andrebbe riveduto e corretto, inevitabilmente. E viceversa. Attenzione, poi i paletti spesso sono dell’autore, è un’autocensura che noi neanche vogliamo.
S.B. John Doe è una scrittura difficile, complicata. Bella, ma magari non adatta al nostro pubblico che predilige altri pregi. Certo, alcuni fumetti li leggo anche con la modalità critica dell’editore.
Cosa gli manca per essere una serie Sergio Bonelli?
Forse perché diluito in tanti albi, sarà perché leggo davvero troppo, ma talvolta non ricordo neanche più io quello che racconta. Certo, non è l’eroe alla Tex, ma lo dico sempre a tutti quelli che lavorano con me, dovevo mettere la scritta alla porta. “Dimenticatevi di Tex”. La sua forza, la sua magia, il suo successo sfugge a tutti i metri di giudizio: ha regole misteriose incomprensibili anche a noi. Tutte le ristampe vanno bene, certo ora vendiamo un terzo, ma è una tendenza generale, siamo destinati ad esaurirci, temo, o a diventare una nicchia, magari in libreria, stampati con una bella rilegatura.
Ha capito qual è il problema?
Non catturiamo più i giovani, che hanno altri interessi. Leggere un fumetto è anche faticoso, certi libri che tutti amano, che vedi nelle mani di tutti al mare o in piscina, son più facili di alcuni albi del “tuo” Nathan Never (il tuo è rivolto a me, aveva capito che Nathan era il mio preferito n.d.r.). Noi abbiamo temi adulti, a volte siamo verbosi, e attecchiamo sui più grandi, è un fatto. Nelle ultime lettere il più “sbarbato” ha cinquant’anni!
Quanto la preoccupa questa tendenza?
Ho un’ossessione, arrivare a un giorno in cui non ho più lavoro per i miei autori e disegnatori. E allora mi prendo delle responsabilità, come il romanzo a fumetti, trecento pagine, una al giorno, per qualche mio autore che correva il rischio di non farcela. Mi ero un po’ disamorato, per le tante graphic novel improvvisate che vedo in giro, e perché siamo troppo legati alla quotidianità.
Quindi ne vedremo altri di romanzi a fumetti?
M.M. Ne faremo altri, Sergio a ragione dice che dovremmo mantenere la trimestralità, ma i tempi di produzione sono lunghi. E il costo è alto per il nostro pubblico.
S.B. I disegnatori da una dozzina d’anni producono pochissimo, ti danno poche pagine per volta, come se non dovessero campare. Non dico i disegnatori di oggi, perché sembra un discorso da vecchio bacucco, ma di fatto è così. Ai miei tempi c’era chi lavorava tantissimo.
LA MARVEL E LA SERGIO BONELLI AL CINEMA E IN TELEVISIONE.