Jim Sheridan detiene un record che probabilmente resterà imbattuto: è l’unico regista ad avere lavorato per tre volte con Daniel Day-Lewis, facendogli vincere un Oscar Il mio piede sinistro. Nel nome del Padre e The Boxer sono state le altre due collaborazioni tra questo irlandese purosangue, Sheridan, e uno solo di padre dal sangue verde come le patrie colline.
Come tutti gli irlandesi, Jim Sheridan ha anche lasciato la sua splendida terra, per cercare fortuna nel Nuovo Mondo, a Los Angeles, come tutti quelli che vogliono fare del cinema un sogno realizzato. Non è stato facile, e buona parte delle sue difficoltà le raccontate attraverso i protagonisti di In America, il suo nuovo film. Ne abbiamo parlato con lui nel corso di questa interessante conversazione.
Jim Sheridan, cominciamo parlando della genesi di In America, una storia con dei risvolti molto personali…
Jim Sheridan: L’idea mi è venuta nel 1990, quando incontrai una delle persone che stava nello stesso palazzo in cui vivevo a Los Angeles. La storia che racconto accade tra il 1981 e il 1987 e la maggior parte delle situazioni che descrivo sono successe a me, come il passaggio della frontiera, l’affitto dell’appartamento o l’episodio del condizionatore.
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Ne rubai uno all’epoca, e bruciai i fusibili provocando un black out. Persino la scena in cui cerco di vincere il pupazzo… Anche mia figlia nacque prematura e fu messa in incubatrice. Sono tutte cose successe realmente. Ciò che ho cambiato è che fu mio fratello a morire, il personaggio del padre è basato su mio padre e su di me. Ho scritto il film dando a mia figlia il mio punto di vista, un cambiamento forse non sostanziale, ma che ha avuto un impatto emotivo fortissimo per me.
Samantha Morton in questo film si cala in un ruolo da combattente, una caratteristica dei suoi personaggi, Mr. Sheridan…
Jim Sheridan: Samantha è probabilmente una delle migliori attrici della sua generazione, gli occhi non mentono. Sullo schermo risplende ed era perfetta nel ruolo di mia moglie, per cui è stata giustamente candidata all’Oscar, uno cosa che mi riempie d’orgoglio, come il fatto che la prima nomination ad un attore africano sia arrivata da un mio film. Djimon Hounsou è stato davvero grande.
È stato difficile per lei, che ha sempre lavorato in Irlanda e nel Regno Unito, fare un film negli Stati Uniti?
Jim Sheridan: No, è più difficile per me lavorare nel Regno Unito. A causa della situazione politica tra Irlanda e Inghilterra, i film irlandesi non hanno in realtà una facile distribuzione, perché non hanno pubblico. Credo che storicamente siamo sempre stati spinti maggiormente verso l’Inghilterra, ma anche verso gli Stati Uniti, dove le storie irlandesi vengono recepite molto meglio.
Paddy Considine è un ottimo attore, ma poco considerato. Come mai ha deciso di affidargli il ruolo del capofamiglia per In America?
Jim Sheridan: Avevo visto Paddy in un paio di film e avevo capito che dava quella sensazione di protezione necessaria per potere interpretare il ruolo del padre in questa storia. Era stato molto divertente in un film dal titolo A Room for Romeo Brass, quindi sapevo che poteva essere divertente e protettivo allo stesso tempo.
In America è anche una bellissima storia d’amore. Non ci sono molti elementi simili nei suoi precedenti film…
Jim Sheridan: Le storie d’amore sono sempre difficili. Quando un uomo e una donna si mettono insieme in un film, per convenzione sei costretto a sospendere la narrazione. I bambini hanno ragione a lamentarsi di fronte al cowboy che bacia la sua ragazza, perché è un momento che inevitabilmente blocca la drammatizzazione del racconto per passare su un piano più poetico. Non credo di essere un regista particolarmente lirico, non sono come Bernardo Bertolucci, Ultimo tango a Parigi è forse la più bella storia d’amore mai raccontata. Ma è una grande storia, perché il conflitto nella coppia è sempre vivo. Se c’è una cosa che ho imparato da quel film, è che se vuoi raccontare una storia d’amore deve esserci il confronto, e non un plot classico tipo ‘ragazzo incontra ragazza’…
Gli U2 cantano che le mani irlandesi sono quelle che hanno costruito l’America, ma nel suo film non sembra proprio essere così.
Jim Sheridan: Credo che le cose fossero differenti per i primi italiani e irlandesi che arrivarono negli Stati Uniti nella metà del diciannovesimo secolo. Quella era gente che veniva dalle campagne e che, arrivata in America, si insediò nelle città, così come fecero gli afroamericani che dal Sud degli Stati Uniti andarono nelle città, a Chicago in particolare, dove inventarono il blues. Gli irlandesi di Dublino erano invece diversi, spesso persone più sofisticate, talvolta artisti o bohemien, che se lasciavano l’Irlanda lo facevano per andare in Inghilterra o a Parigi o a Trieste, non andavano a New York. Io ho preferito andare negli Stati Uniti, ma in futuro, se ne avrò la possibilità, mi piacerebbe dare voce a quegli irlandesi che non l’avevano una volta arrivati in America.
L’Irlanda è molto cambiata negli ultimi anni, è diventata un paese ricco. Questo ha cambiato anche il suo modo di fare cinema?
Jim Sheridan: Credo di sì, anche se non so quando e com’è successa questa cosa. l’Irlanda è stata per ottant’anni sotto la corona inglese ed era un paese povero. Nel momento in cui ci siamo legati all’Europa siamo diventati un paese ricco. Lascio a te trarre le dovute conclusioni… L’Europa è stata davvero molto attenta nei nostri confronti, ma in futuro bisognerà decidere se guardare di più verso di loro o verso gli Stati Uniti, lo stesso conflitto che si è venuto a creare in Inghilterra a causa della guerra in Iraq.
La sensazione è che stiano avendo la meglio gli Stati Uniti…
Jim Sheridan: Sì, ma anche in Inghilterra ci sono tante persone che stanno contrastando l’atteggiamento filo americano di Tony Blair. Per quanto riguarda noi, l’indipendenza dell’Irlanda è cominciata con una marcia per la libertà e una dichiarazione d’indipendenza, due concetti tipicamente americani e che non hanno grandi riscontri nella tradizione europea, quindi anche storicamente siamo più portati a sentirci vicini alla cultura statunitense. Ma la cosa più grave e pericolosa è l’influenza che hanno sulla cultura anglosassone, e non solo, il cinema e soprattutto la televisione americana. Quest’ultima soprattutto…
Mr. Sheridan, cosa le riserva il futuro, a parte la notte degli Oscar che si avvicina per In America? Magari un altro film irlandese con Daniel Day Lewis?
Jim Sheridan: Questa è una delle possibilità, così come quella di girare un film politico ambientato negli Stati Uniti. Ma la cosa che più mi rende felice in questo momento è l’essere stato candidato per la migliore sceneggiatura di In America insieme alle mie due figlie, una cosa che oltretutto non è mai successa nella storia degli Oscar. Aver raggiunto questo obiettivo con loro mi dona una gioia che non è paragonabile alle nomination ricevute per Il mio piede sinistro e In nome del padre.