Credo fosse il marzo del 2001, potrei sbagliarmi, è passato molto tempo, ma non di molto. Ero passato a trovare Felice Laudadio nel suo ufficio di Via della Lungara, forse per un’intervista, o per un semplice saluto, a lui e al suo staff. Chiacchierammo un po’, mi raccontò qualcosa dell’edizione del festival di Taormina che stava preparando, poi mi disse che doveva vedere una persona, e gli avrebbe fatto piacere venissi pure io. Uscimmo dal retro, scoprii che nel cuore di Trastevere c’è una meravigliosa corte con delle casette all’inglese. Pochi passi e Felice bussò a una porta. La aprì Bernardo Bertolucci.
Lo avevo già visto, Bernardo Bertolucci
Quando presentò L’assedio, film meraviglioso, e pochi mesi dopo a Pesaro, nel 1999, quando fece un bellissimo intervento all’interno dell’unica edizione del festival diretta da Andrea Martini. Ma non ci avevo mai parlato di persona, né lo avevo mai intervistato.
“Ti ho portato un ospite, penso vi starete simpatici”. Bertolucci ci offrì un tè, io ero lì imbambolato, guardando questi due vecchi amici che chiacchieravano amabilmente, finché Laudadio non mi disse “Che aspetti? Tanto lo so che hai mille domande da fargli!”. Ed era assolutamente vero. “Infatti, che aspetti, che magari imparo qualcosa pure io”. Non era una battuta, era sincero. E parlammo. Gli chiesi, e fu molto felice, di due suoi film che amo moltissimo, quelli che di solito vengono definiti “minori”, ma che personalmente considero fondamentali nel percorso artistico di Bernardo Bertolucci. La Luna e La tragedia di un uomo ridicolo, storie che raccontano un’Italia ferita e in trasformazione attraverso dei drammi familiari, evoluzioni diverse di ciò che aveva messo in scena nei due atti di Novecento, e che di fatto sono il cuore anche de L’ultimo imperatore e di buona parte del suo cinema, in cui la famiglia ha un ruolo centrale. L’ha avuto fino alla fine, nel suo ultimo film, quel piccolo magnifico miracolo di Io e te.
Parlammo di cinema orientale, gli dissi che avevo trovato ne L’assedio tanto degli autori che negli anni Novanta avevano iniziato a essere finalmente mostrati nei grandi festival. Mi confermò che preparando il film aveva pensato molto al cinema di Tsai Ming-liang, Wong Kar-wai, Hou Hsiao-hsien, Tran Ahn-hùng. Gli piaceva la forma narrativa di quel cinema, in tutte le sue sfumature. Parlammo di molte altre cose, dopo un paio d’ore andammo via. Fu un magnifico pomeriggio.
Lo incontrai nuovamente Bernardo Bertolucci
Alla Mostra del cinema di Venezia del 2003, un regalo, davvero, che mi fu fatto da Flavia Schiavi e Olivia Alighiero, che tutti nell’ambiente del cinema conoscono come ufficio stampa di Bernardo Bertolucci. Ma che sono state parte della sua famiglia, il mio abbraccio va anche a loro in questo momento tristissimo per la cultura italiana. Facevo l’operatore durante quel festival, stavo riprendendo un’intervista con i tre giovani “Dreamers”, Eva Green, Michael Pitt e Louis Garrel. Mentre smontavo l’attrezzatura, Flavia e Olivia mi chiesero se potevo restare qualche minuto. Nel salone di quel che fu l’Hotel Des Bains, arrivò Bernardo Bertolucci. Voleva fare quattro chiacchiere, sapere che ne pensavo del film, come andassero le cose, augurarmi buona fortuna.
Era una persona straordinaria, Bernardo Bertolucci
Prima ancora di essere l’artista che è stato. “Magari imparo qualcosa pure io”. L’uomo che ha girato Il conformista, Ultimo tango a Parigi, che a vent’anni era sul set di Accattone con Pasolini. Quell’uomo ascoltava chiunque, persino me, perché non si sa mai da dove può arrivare qualcosa di nuovo o di importante. Sono certo di non avergli reso questo servigio. Ma Bernardo Bertolucci lo ha reso a me. Con quella frase. Con il suo cinema immenso. Non l’ho dimenticato. Non lo dimenticherò.