Steven Soderbergh è una leggenda. Nell’ultimo quarto di secolo ha percorso ogni genere, vinto (e fatto vincere) ogni tipo di premio, ha fatto la fortuna sua e di tutti gli attori con cui ha lavorato. Clooney e Julia Roberts, Del Toro ed Andie McDowell, e così via, non sarebbero gli stessi senza di lui. A Venezia siamo stati insieme tre quarti d’ora, ha scaricato The Cinema Show, abbiamo parlato di tutto, da Sesso bugie e videotape all’ultimo Contagion, passando per il baseball e Facebook. Godetevi questa chiacchierata, magari con All I want is you degli U2 di sottofondo. Quella che va sul finale del suo ultimo film.
Contagion, la sua ultima fatica, come nasce?
Steven Soderbergh: Nella testa di Scott Burns, mentre stavamo pensando a un’opera sulla vita di Leni Riefenstahl: una bella idea ma difficilissima da realizzare e ancora più complicata da far apprezzare al pubblico. Parlando con dei produttori e tra noi abbiamo cominciato a pensare a un altro progetto e a Scott è venuto in mente di fare un film “pandemico”. Abbiamo subito riscontrato un interesse enorme da parte dei produttori, soprattutto indipendenti. Il secondo step è stato quello di costruire una rete di personaggi interessanti e non è stato facile: basti pensare che Jude Law, forse il centro della narrazione, è arrivato nelle nostre teste negli ultimi giorni di scrittura.
Perché i media possono essere più pericolosi di un’epidemia?
Steven Soderbergh: L’intuizione è nata dal voler immettere un altro virus nel film, quello mediatico, un’idea geniale di Scott. È davvero ambiguo quel ruolo e Jude è stato bravissimo. Sono convinto che il suo giornalista precario non sia cinico né bugiardo: è convinto di quello che dice, si ammala e guarisce, sfrutta a proprio favore l’attenzione che costruisce attorno a sé, perché pensa di avere ragione. Allo stesso tempo è estremamente ambizioso e furbo, e inevitabilmente questo lo porta a cavalcare la situazione. Quello che dice, in effetti, fa parte di un’ideologia, di una paranoia collettiva, la teoria del complotto, condivisa da molti: una leggenda politica per cui il Potere mente sempre. E molti di loro, come lui, vedono in internet una piattaforma democratica dove sbugiardarlo. La Rete però è fuori controllo, anche nel senso negativo: io non potrò mai sapere cosa si dice di me, l’esattezza delle informazioni
che circolano sul mio conto.
Contagion usa un altro fenomeno che si è espanso come un virus: la comunicazione 2.0. Lei che rapporto ha con social network e affini?
Steven Soderbergh: Appunto. Ci sono account su Facebook e Twitter a mio nome, ma non sono miei e approfitto per dirlo: è estremamente seccante che qualcuno abusi del mio nome. Pur essendo interessato ai progressi tecnologici e comunicativi, non mi ha mai coinvolto questa nuova rete virtuale di contatti, ne sono rimasto fuori. Forse anche per un fatto semplicemente anagrafico. Ma è interessante il livello di penetrazione nella societá che ha avuto la comunicazione 2.0, quanto abbia cambiato le nostre relazioni. E non sono di quei moralisti che pensano siano peggiorate: ricordo la fatica con cui chiedevo, e ancora meno ottenevo, un’uscita con una ragazza, e come questo sia cambiato ora con tutti questi modi di prender contatto.
Eppure uno come Gordon Brown considera Facebook una concausa dei riots inglesi.
Steven Soderbergh: Gordon Brown non ha un problema con i social network, ha un problema con il suo popolo. La tecnologia non si usa da sola, c’è sempre un essere umano dietro: può usarla per provare a combattere dei regimi, come è successo in Nord Africa e Medio Oriente, o per protestare contro il governo e la crisi come a Londra, Manchester o Liverpool. Gli atti di violenza, i reati, non sono responsabilitá del mezzo, ma di chi lo usa. Se su Facebook si parlano due terroristi, il problema è il primo e non i secondi? Ma per favore… Io vedo, per esempio, ottimi effetti di questo social network su mia figlia ventenne: lo usa con equilibrio, perché possa semplificarle la vita, ma non l’ha resa né un soggetto pericoloso né un’asociale sempre attaccata al pc. Pessima informazione, la paura e una comunicazione errata delle istituzioni: questo mix è letale più dell’uso che Jude Law fa nel film del suo blog. Che, semmai, è una conseguenza.
Sfonda una porta aperta. The Cinema Show è una rivista solo per iPad e gode di maggiore libertà e possibilità proprio grazie al mezzo. E a chi lo usa!
Steven Soderbergh: Appunto, nel vostro caso permette un’informazione democratica e priva di pressioni. Come vedi è origine di un’esperienza molto positiva. Certo, se mi facevi brutte domande, l’iPad mica poteva salvarti.
Tornando al discorso precedente: parlava di paura, la vera arma di distruzione di massa del presente.
Steven Soderbergh: Da sentimento umano utile all’auto conservazione è diventata un’arma. La paura come il dolore dovrebbe essere un avvertimento, un invito alla prudenza, tale era nelle società primitive e tale è ancora per gli animali e per gli uomini in molti contesti naturali in Africa. Ora invece viene strumentalizzata, è il detonatore di molti dei conflitti che affrontiamo: non solo tra culture e religioni, non solo quelli nei teatri di guerra, ma anche quelli sociali e razziali.
C’è modo di combatterla?
Steven Soderbergh: Un suggerimento ce l’ho. Come artista devi risolvere un problema ogni minuto, devi sempre guardare a soluzioni nuove perché non puoi permetterti di non essere originale. Questo modo che io uso nel cinema, come tanti altri colleghi e creativi in generale, dovrebbe essere portato anche in politica: è una strategia incredibilmente efficiente. E invece la paura che pervade il nostro mondo ci spinge spesso ad avere nostalgia di un passato visto come l’Eden: peccato che allora c’erano più guerre, si moriva di più, c’erano meno sicurezza e diritti. Così finiamo anche per temere il futuro, è assurdo. Tornando alla modalità artistica di contrastare paura e problemi, il segreto della sua efficienza è nel confronto costante, nell’uso della parola e della cultura come argine all’irrazionalitá della paura. Questo ci impedisce di essere controllati da questo sentimento primario, che da anticorpo può divenire virus.
Ha stravinto a Hollywood e fa grande cinema indipendente. Qual è il segreto del suo successo?
Steven Soderbergh: Sono stato molto fortunato per diversi motivi. Uno è stato la mia tempestività: ho iniziato la mia carriera in un ottimo momento per il cinema americano. Sesso, bugie e videotape arrivò durante la rinascita della Settima Arte dopo un decennio che aveva segnato la morte della New Hollywood dei giovani, straordinari autori che avevano scritto la storia del cinema negli anni ’70. Erano stati sconfitti, con poche eccezioni come David Lynch: quella new wave era stata spazzata via e avevano ripreso potere gli studios. Ma in quell’anno, il 1989, ci fu una nuova inversione di tendenza e mi trovai al centro di quel cambiamento con il film giusto al momento giusto. L’ulteriore successo commerciale mi consentì di sperimentare più di molti miei colleghi: mi sono potuto permettere più insuccessi di altri. Un giovane cineasta oggi, al massimo, può permettersi due passi falsi, io ne ho fatti di più (quasi un decennio di flop, ndr). Quei “fallimenti” mi aiutarono a crescere, a migliorare la mia estetica, il mio stile, ad acuire il mio desiderio di imparare, permettendomi di essere quello che sono ora. Un altro motivo è la New Hollywood: sono cresciuto guardando quei film straordinari in cui giovani registi geniali riuscirono a sfidare e conquistare gli studios. Il loro esempio è stato fondamentale per me. L’ultimo segreto è la curiosità: ho sempre voglia di qualcosa di nuovo.
Allora ha ragione Damon, lascerà il cinema per la pittura? O è il solito scherzo di Matt?
Steven Soderbergh: Sì, è uno scherzo, ma non del tutto. Da un po’ sento l’esigenza di rinnovare il mio linguaggio, di fare una pausa perché la mia maggiore fonte d’ispirazione, il genere umano, è a mio avviso in un momento di stallo, e in fondo è una delle cose che racconto in Contagion. Non so se è una mia fantasia o se fra un mese mi chiuderò in un monastero, se starò cinque anni senza dirigere un film o d’ora in poi mi esprimerò solo con la pittura. è la vita,
staremo a vedere. So solo che qualcosa si muove dentro di me e di solito quando questo succede, qualcos’altro accadrà a mettere a posto le cose.
Quali sono le paure più grandi di Steven Soderbergh?
Steven Soderbergh: Non quelle che racconto, sono onesto. Un virus che si diffonde con enorme facilità non riesce a spaventarmi, ha qualcosa di ineluttabile: possiamo proibire agli uomini di bere, giocare, salutarsi, mangiare, usare le stesse suppellettili in un ristorante o viaggiare in aereo? E non ho paura della morte, evento assolutamente naturale. La mia è una paura molto più personale: svegliarmi un giorno e trovarmi di colpo senza più una passione ad accendere la mia vita. Nasce dalla mia adolescenza: ero un ottimo giocatore di baseball e da un giorno all’altro il sacro fuoco per questo sport, che amo, si spense. Ecco, non vorrei mai più rivivere quell’esperienza.
Un’ultima curiosità: per Contagion si è ispirato anche alla storia di Carlo Urbani?
Steven Soderbergh: Non lo conosco, ma so che Scott nel tratteggiare le figure dei medici ha studiato quasi tutto il possibile e ne saprà sicuramente più di me. Chi è?
Il medico che per primo ha identificato la Sars, e le cui coraggiose ricerche hanno permesso il contenimento dell’epidemia a poche centinaia di vittime e non migliaia. Ma per il suo altruismo non è riuscito a evitare il contagio.
Steven Soderbergh: Una dolorosissima e splendida storia, varrebbe la pena farci un film. Immagino che qui in Italia sia un eroe.
Lo saluto, emozionato. Un grande artista, un grande uomo. Io meno, non ho il coraggio di dirgli che di Carlo Urbani, un vero grande eroe, in Italia sappiamo davvero in pochi. E nessuno si prende la briga di rendergli gli onori che merita. Lo facciamo qui. Grazie Carlo. E grazie Steven per la semplice ammirazione del tuo sguardo, quando ne ho parlato.