Cameron Crowe è un autore che mi è particolarmente caro. Quando ero un adolescente, già tardo e pure un po’ problematico, Non per soldi ma per amore mi ha insegnato un sacco di cose su cosa vuol dire tenere davvero a qualcuno. Ovviamente non sono quasi mai riuscito a mettere in pratica tutte queste belle intenzioni, ma se i film funzionassero davvero così, probabilmente potrei salvare un grattacielo da una banda di criminali senza scrupoli e potrei volare con un mantello rosso. Anzi, senza mantello, perché è pericoloso.
Singles mi fece vivere la breve epoca del Grunge con intensità, e anche per merito, o colpa, di quel film, il 17 giugno sarò a Bologna a raccontare la vita di Kurt Cobain nella giornata finale del Biografilm Festival 2012.
Ma i due film di Crowe che hanno veramente segnato in maniera indelebile la mia precaria esistenza sono stati Almost Famous ed Elizabethtown. Due storie di formazione eccezionali, la prima di introduzione alla vita, la seconda di riapproprazione della stessa, basate entrambe sulla necessità di avere dei punti fermi su cui potersi appoggiare anche nei momenti peggiori. L’amore, la passione nell’inseguire i propri desideri, il non disperare mai che prima o poi si possano avverare.
Per tutte queste ragioni è impossibile non amare La mia vita è uno zoo
Storia vera di un giornalista che un bel giorno decide che, per mettere a posto i pezzi di un’esistenza problematica, ci sia solo un modo: comprare un bioparco con annessi e connessi.
Benjamin Mee, interpretato da un ottimo Matt Damon, supera tutte le prove che una buona sceneggiatura americana deve avere: vedovo, con un difficile rapporto con il figlio primogenito, cocciuto e retto fino all’autolesionismo, devoto all’amore della sua vita fino a una liberazione finale che coincide con il raggiungimento dell’obiettivo, o dell’arrivo a casa base, come preferite.
“Se lo costruisci, lui tornerà”,
Il campo di grano diceva a Ray Kinsella. Ed è quello che succede anche in La mia vita è uno zoo che, al di là dei meriti cinematografici, decisamente inferiori rispetto ai precedenti lavori di Crowe, è uno di quei feel good movie che si dovrebbero giudicare con meno superficialità e spocchia.
Una delle funzioni basilari del raccontare storie è proprio quella di dare a chi guarda, legge o ascolta la possibilità di entrare in un mondo altro, diverso per ognuno. Democraticamente sono felice di sapere che c’è chi si esalta all’ascolto di The Trooper degli Iron Maiden (gran canzone, oltretutto) così come alla visione di Antichrist di Von Trier (nello scrivere ciò mi sto facendo violenza, ma tocca essere coerenti).
Personalmente, mi piace sperare in un mondo migliore, in cui si possano avere colpi di fortuna, buone giornate e cattive giornate, gioie e dolori, soddisfazioni molte e incazzature poche, una buona dose d’avventura e una Penny Lane da abbracciare.
E se pensate che tutto questo sia noioso, borghese, banale e malato come vivere nella bolla di Truman Burbank, e preferite aspirare a essere il personaggio preferito della poetica di Haneke, fate pure, il posto è vostro.
Io intanto porto da mangiare alla tigre.