Al Biografilm Festival quest’anno (2011) il tema portante sono gli anni Ottanta. In particolare il biennio 1985-1986, che tanto ha significato politicamente e socialmente per il mondo a venire, per il successivo crollo del Muro di Berlino nel 1989 e per la costruzione, al suo posto, della società come oggi la conosciamo. Per questo è stato essenziale per la sottoscritta portare al Biografilm una retrospettiva sul regista che, più di molti altri, ha rappresentato gli anni Ottanta nel loro divenire. John Hughes ha diretto, scritto e prodotto film fino al 2008, ma come la guerra fredda, il consumismo sfrenato e il disastro di Chernobyl ci hanno reso quel che siamo ora, così Hughes ha raccontato noi come siamo oggi, e lo ha fatto in quel decennio.
Nel suddetto biennio ’85-’86 Hughes ha diretto tre film e ne ha scritto un quarto. Quattro sintesi perfette di ciò che eravamo ieri, previsioni di quello che siamo diventati oggi. Hughes è il cantore dell’adolescenza e, a differenza di molti suoi illustri colleghi, ha saputo raccontare i giovani indipendentemente dal genere maschile o femminile: non ha prodotto chick lit in stile Clueless, non ha indugiato nella comicità guascona, goliardica e tutta maschile alla Porky’s, ma si è assestato proprio in mezzo, perché era lì che lui era capace di stare, in mezzo ai ragazzi.
Non c’è nulla di più ridicolo di un uomo adulto che cerca di essere amico degli adolescenti imitando goffamente il loro linguaggio; il buon Hughes invece quel linguaggio lo parlava fluentemente, lo comprendeva nel profondo e, soprattutto, prima di parlare ai giovani li sapeva ascoltare. La “generazione perduta” era sola, in mezzo a tutto il benessere economico e a un’apparente spensieratezza. Gli adulti non c’erano, troppo presi dall’arrivismo e dallo yuppismo che proprio in quegli anni hanno toccato le vette massime. L’edonismo fine a se stesso (che anche oggi ci ritroviamo, perpetrato e portato al parossismo attraverso il susseguirsi di de-generazioni) investiva più gli adulti che i ragazzi, ancora bisognosi di sogni a occhi aperti tra i banchi di scuola. Ecco che i “grandi” nel cinema di Hughes non ci sono, anche se vengono evocati. I genitori di Samantha Baker si dimenticano del suo compleanno più importante, quelli dei due nerd protagonisti de La donna esplosiva non si accorgono che i figli fanno esperimenti pazzeschi in casa e non ci sono quando gli stessi la distruggono, fanno camminare il cane sul soffitto, ecc. In Una pazza giornata di vacanza Cameron Frye, ritratto strutturatissimo dell’adolescente insicuro e impaurito, ha il terrore di un padre che non si vede mai, che viene identificato solo dal simulacro dell’automobile che possiede e che tiene lucida in garage, e i genitori dello stesso Ferris lo lasciano da solo in casa anche se è affetto da una malattia grave e sconosciuta (d’accordo, lui sta bluffando, ma loro non lo sanno e vanno bel- lamente al lavoro).
John Hughes questi ragazzi li ha osservati, studiati, ha carpito il loro disagio profondo e inespresso, e lo ha collocato in un contesto, quello dell’America degli Eighties appunto, che non aveva tempo per loro, ma con la quale dovevano inevitabilmente fare i conti. E noi, che siamo provincia dell’impero, non eravamo poi così diversi, dal momento che passavamo i pomeriggi con gli amici sul divano, in una casa senza genitori a divorare pop corn fatto in casa di fronte alle videocassette dei film di Hughes, Crowe e di quelli tratti da Stephen King, fino a impararli a memoria. Negli Stati Uniti Hughes è già considerato un autore, tanto che sono moltissimi coloro che lo imitano. Ma nessuno, mai, è ancora riuscito a eguagliare la sua freschezza di racconto, il suo tocco registico e narrativo, quelle piccole grandi soluzioni di regia che facevano la differenza. Come quella in cui Cameron Frye è al museo di Chicago e guarda la bambina con la bocca splancata nel quadro di Seurat. Il grido è silenzioso, l’empatia è sconquassante… e il tutto è reso in pochi secondi di montaggio sull’asse.
Intanto il mondo fuori dai licei stava cambiando, c’era aria di rivoluzioni stabilite a tavolino, non combattute dal popolo con sassi e bastoni, e per questo nessuno poteva sapere come sarebbe andata a finire. Con i primi personal computer il mondo diventava improvvisamente veloce, e alla comune domanda “Cosa sarò da grande?”, che ogni adolescente si pone, se ne aggiungevano altre, nuovissime, a cui nessuno era in grado di dare risposte.
Hughes non ha mai cercato di impartirci una lezioncina, non si è mai posto su un gradino più in alto del nostro. Invece ci ha dato una pacca sulla spalla e, infondendoci coraggio, ci ha detto che in qualche modo sarebbe andato tutto bene. John Hughes mi ha insegnato a provare emozioni che non sapevo nemmeno esistessero. Anche tutti voi lo amate. Solo che ancora non lo sapete.