Era da diverso tempo che Pupi Avati non si cimentava con il cinema di genere, a lui molto congeniale, mescolando la tradizione di un’Italia rurale con elementi horror. E per questo Il signor diavolo sceglie la Pianura Padana degli anni che furono, con classi sociali ben definite, superstizione e religione che si mescolano, riti di esorcismi e omertà professionali. Torna il Pupi Avati più tetro e oscuro, con le sue semplificazioni e le sue contraddizioni, con l’odore di polvere e le unghie sudice dei ragazzini che giocano in campagna, le ginocchia sbucciata e l’aria stantia di un’estate che non passa mai. Uno stile peculiare e riconoscibilissimo, quello dell’Avati horror, che se piace è il massimo, che mostra il fianco alle critiche, che rifugge i virtuosismi pur avendone.
Avati è Avati, è un marchio di fabbrica. E questo ultimo lavoro non fa eccezione. Va preso per ciò che è: attingere a un immaginario storico che è il nostro, lontano dall’America-centrismo di certo cinema, vicino alle tradizioni religiose, affatto sciocche, di fatto radicate, pertanto riconoscibili, nelle paure più ataviche, sommerse in ciascuno di noi. Un film nostro, come ci ha racco0ntato il regista, incontrato a Roma.
Come mai è voluto tornare al genere gotico degli anni Settanta?
Siamo tornati ai film gotici degli anni Settanta perché ho avvertito che il cinema italiano stava annaspando in un solo genere che è quello della commedia, attraverso la reiterazione di moduli, di mondi che sono sempre gli stessi, con narrazioni che riguardano esclusivamente il presente e, per giunta, con una panchina molto corta. Anche gli interpreti sono sempre gli stessi, combinati fra di loro. Restituendo quella che era la sfrontatezza del cinema quando ho iniziato questo lavoro – e che è poi la ragione per cui ho iniziato a fare questo lavoro – ed essendo nel frattempo diventato anziano, ho avuto la sensazione di aver percorso l’ellisse della mia vita in una fase di ritorno.
E perché ha scelto di fare questo lavoro, dunque?
Perché ho scelto di fare cinema? Perché il cinema mi rimandava a un altrove a cui mi rimandavano i racconti delle mie zie quando eravamo sfollati, o di quei parroci su quei pulpiti, minacciosi e preconciliari. Il mondo dei Coniugi Andolfini, quadro spaventoso che era dietro la scrivania di mio padre. O le stanze buie in cui venivamo chiusi… Ecco, ho pensato di ripercorrere queste antiche paure perché i ragazzi più giovani che frequentano le mie conferenze hanno sempre in mano il DVD di un mio film horror, gli altri miei film sono scomparsi. Ho pensato che avendo una riserva a cui attingere, avrei dovuto farlo.
Come definirebbe in breve Il signor diavolo?
Un film gotico. E per gotico si intende “de paura”, ma con una dose molto alta di sacralità. Quelli che autodefiniscono i propri film “gotico” ignorano spesso che alla base il gotico è questo. Deve avere a che fare con il sacro, con la trascendenza, con l’altrove. Questo è un film gotico che riguarda un’Italia antica, doncamillesca, in cui la sfida tra democristiani e comunisti era fondamentale. Mia madre veniva da una famiglia socialista, mio padre era di estrazione democristiana. A tavola c’era un dibattito politico dal sapore “Dio nella cabina ti vede, Stalin no”. Si può definire il racconto di un’epoca che non c’è più, ma la paura è rimasta la stessa. Prova a chiudere un bambino in una stanza buia oggi… avrà la stessa paura di uno nell’età della pietra.
Gotico e grottesco, nell’Italia di un tempo. Che valore ha, che bacino è ancora oggi da cui attingere per l’horror?
È un bacino fondamentale. Infatti gli americani, che sono più attrezzati di noi dal punto di vista tecnico, lo hanno usato moltissimo. Basta vedere serie meravigliose come True Detective che attinge dalla cultura contadina del Midwest. Noi purtroppo abbiamo disatteso tutto questo, sprechiamo e non consideriamo l’unico repertorio che abbiamo e che invece rifuggiamo. L’unico passato e presente a cui attingiamo è la parte malavitosa del Sud, con serie come Gomorra, ma per il resto, tutto ciò che riguarda la nostra cultura e le opportunità che darebbe, viene tralasciato a favore di un presente che è impersonale, asfittico e generalista, non ha radici e può avvenire ovunque. Permettere alle persone di fare una comparazione tra il mondo in cui sono cresciuto io, chierichetto di professione, in cui il diavolo, sinonimo di male, era presente sempre, continuamente nominato. Baudelaire diceva che il più grande trucco del diavolo è stato convincere le persone della sua non esistenza. Ecco, un grandissimo trucco.
Lei quindi crede che il male esista…
Io so che il male esiste. Perché lo pratico, perché l’ho fatto. Perché so benissimo cosa significa godere della sfortuna di qualcuno, della scivolata di un mio collega, per esempio. E lì già è il male. L’ho anche molto subito. Ci sono persone che fanno il male per il male. E incontrare queste persone significa incontrare il diavolo.
Ma lei crede al diavolo?
Ci credo ciecamente. Credo al male, che è sinonimo di diavolo.
Il personaggio del film ha un finale già scritto. Ha mai pensato ad altri destini per questo personaggio?
Ho pensato che questo finale potesse essere una metafora per dire che il male è ovunque, che non c’è nessuno che si possa sentire esentato dal fatto che tu sei il male. Io guardandoti negli occhi, penso che tu sia il male.
Si dice che l’horror ritorni nei periodi di crisi della società…
Questa cosa viene smentita, magari fosse così. Perché prima di fare questo film, ho avuto sei no da sei produzioni diverse. Il cinema italiano è sparito da tutte le classifiche, ha perso otto milioni di spettatori, non sta nei primi dieci posti degli incassi mondiali, quindi mi sembra che non goda di grandissima salute.
Il racconto di quella parte d’Italia è sorprendente: il lato più spensierato, ma anche l’orrore che è dietro l’angolo. Viene da una conoscenza personale o da uno studio nel corso del tempo?
Soprattutto la seconda: l’aver visto, attraverso gli ottant’anni che ho vissuto su questa terra, mutazioni profonde delle quali non ci si può non rendere conto. Ma non con rammarico. Penso che nell’oggi si viva infinitamente meglio che in quel passato là, ma se noi non lo raccontiamo, non possiamo compararlo e non ci rendiamo conto di quali siano le enormi conquiste che ha fatto l’essere umano. E non c’è nessuno: fino a qualche tempo fa molti miei colleghi si occupavano di raccontare quel passato là, ma via via se ne sono andati tutti. Ora è rimasto solo un cinema del presente. Che va bene, sia chiaro, funziona. Ma siccome io ho visto i miei archetipi nascere in quegli anni, non posso prescindere dal testimoniarle. Vado a fare conferenze ovunque, poiché ormai sono più conferenziere che regista, e in tutte le conferenze che faccio, racconto com’è stata la mia vicenda umana.
Come vive il contatto con la gente durante questi incontri?
In queste conferenze c’è sempre molta gente che mi chiede un autografo su un mio DVD. Ed è sempre un mio film horror. E questo fatto la dice lunga sul come il cinema italiano avrebbe bisogno di riconsiderare i generi, non con la “schizzinosità” degli autori italiani che considerano fare il genere come una sorta di rassegnazione. I generi vanno fatti con rispetto e con l’amore. È nel dosaggio, nella quantità, il bilanciamento tra l’autorialità e il genere, che si vede la capacità. Quanto l’autore è riuscito a gestire il genere e quanto il genere non lo ha invece soverchiato. Credo di essere riuscito a gestire questo genere e dargli una mia identità.
Un’altro appiattimento che personalmente soffro molto nel cinema odierno, non solo italiano, è l’appiattimento dei casting. Sono tutti belli, in tutti i ruoli. Lei invece ha trovato volti reali, che danno veridicità ai personaggi…
Ho trovato facce inquietanti. Il bambino protagonista ha un volto in equilibrio tra un quotidiano sereno e un voler essere in qualche modo risarcito dalla vita, da un qualcosa che non ha funzionato. Cerco i volti che da soli fanno il film. L’allenatore sta in panchina, ma è la squadra che metti in campo che gioca la partita. Mettere in campo delle facce vere, stare con loro intere settimane, devono essere persone che ti piacciono. Io mi innamoro dei miei attori.
Quanto è cambiato questo film rispetto ai suoi gotici più classici? Qui c’è anche Sergio Stivaletti…
Ho voluto ripagare Sergio, che iniziò con me e non aveva mai fatto il cinema. Era il fidanzato della mia attrezzista e gli feci fare una jazz band di fiammiferi e un Torre Eiffel di fiammiferi, e lui iniziò a fare cinema così. Poi è diventato chi è, soprattutto grazie alle collaborazioni con Dario Argento. Ho voluto ricreare una squadra un po’ d’antan. Ho richiamato anche Amedeo Tommasi, il musicista de La casa delle finestre che ridono. Ho voluto, i modo anche un po’ provocatorio, che non sono sempre i soliti, che c’è un sacco di gente seduta in cantina che aspetta di essere chiamata.
Diceva che questa storia si presta a un sequel. Vuole dare un seguito al Signor diavolo?
Ho un contratto per un romanzo del seguito che si chiama L’archivio del diavolo. Chi vedrà Il signor diavolo, saprà che il film lascia un sacco di porte aperte. E ci sono opportunità molto valide per questa storia.