Tolkien. Basta la parola per portare alla memoria mondi straordinari che hanno fatto sognare generazioni di ragazzi, e non solo, dagli anni Sessanta in poi. John Ronald Reuel, questi tre nomi vengono pronunciati in automatico da chi ha avuto sul comodino Lo hobbit e Il Signore degli Anelli. Eppure, come per tutti, c’è stato un tempo in cui anche l’uomo che ha inventato la Terra di Mezzo, non era che un ragazzo.
E anche piuttosto sfortunato, essendo rimasto orfano da adolescente, e affidato insieme al fratello a una caritatevole signora di Birmingham. Sono questi gli anni che ha deciso di raccontare il regista Dome Karukoski, degli studi a Oxford, della prima fratellanza segreta, della guerra. E soprattutto dell’incontro con Edith, l’amore della vita di J.R.R., con cui avrebbe avuto quattro figli.
Tolkien è un biopic classico
Come se ne vedono molti ultimamente, con licenze poetiche che richiamano il mondo interiore dell’artista, dividendolo tra realtà e fantasia. Niente di nuovo sotto al sole, basti pensare a Goodbye Cristopher Robin, racconto comunque ben più complesso e doloroso. Il padre degli hobbit viene invece presentato al pubblico come un adolescente al passo con i suoi tempi. Soprattutto un orfano in cerca di una nuova famiglia, trovata grazie agli amici e all’amore. Ma cronistoria a parte, la parte assai interessante del film, e non poteva essere altrimenti, è l’importanza che viene data alle parole e alle sfumature delle stesse. Corretto, parlando di un linguista e filologo, ma non scontato in un mondo in cui proprio le parole sembrano avere ogni giorno meno senso e significato, travolte dalla moderna dittatura dell’immagine.
Al di là dei meriti cinematografici, nella media o giù di lì, di Tolkien, fa comunque piacere godere di dialoghi scritti con ricercata passione e, nonostante il desueto eloquio, senza un granello di polvere. Perché le parole sono importanti. E non passano mai di moda.