Quaranta milioni di copie vendute e forse un numero di detrattori equivalente nel mondo. Probabilmente neanche Dan Brown, un professore di inglese con il pallino della scrittura, avrebbe scommesso così tanto sul successo de Il codice Da Vinci, suo secondo romanzo dopo Angeli e Demoni, quest’ultimo passato praticamente inosservato per ragioni anche piuttosto evidenti.
E se proprio vogliamo dirla tutta, anche la sua gallina dalle uova d’oro non è esattamente un capolavoro della storia delle belle lettere, ma grazie alla struttura estremamente cinematografica, o meglio, televisiva, dato che il format è molto simile a quello della serie 24, e ai molti rimandi pseudo dotti, tra storia, arte e letteratura, ecco che Mr. Brown si è ritrovato a essere un celebrato e contestato scrittore.
Merito va anche molto alla moglie Blythe, professoressa di storia dell’arte e pittrice (anche se francamente non fremiamo all’idea di vedere i suoi dipinti), che a detta di Brown è la vera ideatrice della trama del Codice, almeno questo è quanto a dichiarato di fronte ai giudici per scagionarsi dalle accuse di plagio che gli sono cadute addosso in questi anni. In particolare, quella che non lo sta facendo dormire la notte ha portato al processo che mentre scriviamo è ancora in corso e che, se vedrà una sentenza sfavorevole nei confronti di Brown, rischia addirittura di far saltare l’uscita del film, con sommo dispiacere del Festival di Cannes, che già da tempo ha annunciato con gaudio di avere scelto il film per la trionfale apertura dell’edizione 2006 du Festival.
Ma le polemiche non finiscono qui: l’Opus Dei, che Brown attacca frontalmente più o meno da pagina 38 del romanzo, non ha preso molto bene tutte le accuse e le illazione che lo scrittore, bisogna dire anche con una certa leggerezza, dissemina nel Codice, tanto che ha annunciato che la sua magnifica sede di New York è aperta a chiunque voglia conoscere più a fondo le pie opere dell’Opera di Dio.
Ma in tutto questo, il film? La cosa migliore è andare con ordine.
Capitolo 1: Mr. Brown e la divulgazione della cultura
La vera anima di Dan Brown probabilmente non è quella dello scrittore di thriller perfettamente congegnati, anche perché sia il Codice che Angeli e demoni, pur nelle loro strutture senz’altro appassionanti, sono di una prevedibilità disarmante. La grande forza di entrambi i romanzi sta invece nelle molte curiosità di cui sono disseminati. Robert Langdon, il personaggio inventato da Brown e che non dovrebbe uscire di casa la mattina per evitare che gli capitino guai, è infatti un vero e proprio pozzo di scienza che a ogni pie’ sospinto è capace di snocciolare informazioni sulle più disparate branche della cultura umana. Nella maggior parte dei casi si tratta di cantonate clamorose (non c’è romano che si rispetti che non si sia fatto ricche risate alle descrizioni e leggende capitoline di questo americano in vacanza in Angeli e demoni), ma che hanno fortemente inciso sull’immaginario collettivo. Far interagire poi sette massoniche e istituzioni ecclesiastiche è un mix infallibile. E infatti non ha fallito.
Capitolo 2: Robert Langdon, I suppose
Bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare: Robert Langdon è un personaggio ben riuscito. Simpatico, ironico, intraprendente fino alla follia, riesce perfettamente a incarnare sulla pagina l’accademico diventato avventuriero suo malgrado. Chiaramente ispirato alla figura di Indiana Jones, riesce a rendere credibili le situazioni assurde (sotto tutti i punti di vista) in cui lo ficca il suo creatore. Bravura di Dan Brown in questo caso, così come è da applauso la scelta di Ron Howard di dare a questo investigatore da biblioteca (anche se quella del Vaticano la devasta completamente…) le fattezze di un Tom Hanks dimagrito e con degli inediti capelli lunghi. Il carisma del due volte premio Oscar colpisce subito ed è certamente una delle armi vincenti del film.
Lasciamo quindi, almeno momentaneamente, da parte il bestseller e occupiamoci del film, perché questo è uno di quei casi in cui l’arte cinematografica fa molto meglio della letteratura. Merito di una produzione solida, messa in mano a un regista come Ron Howard, quello che possiamo tranquillamente chiamare l’ultimo erede di quell’epoca classica di Hollywood in cui fare cinema d’intrattenimento era una forma d’arte raffinata.
Howard ha più volte dimostrato di essere in grado di gestire blockbuster, così come è riuscito a fare all’interno dello Studio System dei piccoli gioielli (vedi The Missing, tanto per fare uno degli esempi più recenti).
La materia che si è ritrovato per le mani questa volta è decisamente scottante, ma il buon vecchio Ricky Cunningham non si è perso d’animo e ha chiamato per adattare sul grande schermo questo clamoroso caso letterario il suo fidato collaboratore Akiva Goldsman, compagno di Oscar per A Beautiful Mind. E dato che certe cose vengono meglio se la squadra è perfettamente affiatata, oltre a Hanks, con cui aveva già lavorato in Splash e Apollo 13, Howard ha reclutato per il difficile ruolo dell’albino Silas Paul Bettany, l’amico immaginario di Russell Crowe sempre in A Beautiful Mind.
In una parola, produzione, a cui va affiancato anche il termine marketing.
Capitolo 3: La Langdon Girl
Marketing e promozione, due armi infallibili per vincere la guerra del botteghino. La squadra di Mr. Da Vinci ha iniziato da molto lontano, esattamente nel dicembre del 2004, quando hanno cominciato a rincorrersi le voci su chi avrebbe interpretato Sophie Neveau, la crittografa della polizia di Parigi che è al centro dell’intrigo e che accompagna Robert Langdon nella loro folle corsa verso la verità. Tanti i nomi, praticamente tutte le giovani stelle francesi hanno sperato di mettere le mani su quel ruolo, da Virginie Ledoyen a Marie Gillian, fino addirittura a Laetitia Casta. Ma com’era logico che fosse, la prescelta è arrivata nel momento più favorevole e si è trattato del casting perfetto che solo una produzione di ferro sarebbe stata in grado di fare. Amelie Poulain, signore e signori, ovvero Audrey Tatou che, guarda caso, proprio nel periodo in cui è stata eletta Langdon Girl era in giro per mezzo mondo a fare la promozione di Una lunga domenica di passioni.
Capitolo 4: L’Opus Dei
L’Opera di Dio non è stata particolarmente felice di quello che ha visto, tanto che ha consigliato che venissero fatte alcune “correzioni” nel film riguardo alcune “inesattezze” che Dan Brown a inserito nel romanzo e riguardanti le diverse ramificazioni della potente opera pia fondata dallo spagnolo Jose Maria Escrivà nel 1928.
Traduzione simultanea: l’Opus Dei non ha affatto gradito che si associasse la loro attività religiosa a quella di fantomatiche sette più o meno inventate, vista anche la figura non proprio bella che ha fatto fare al Vaticano in Angeli e Demoni. Non è un segreto, naturalmente, che l’Opus Dei sia realmente un’associazione religiosa ramificata e potente e che molti suoi esponenti siano stati spesso associati a operazioni non proprio limpidissime, ma ciò non toglie che si debbano avere delle prove anche per poter scrivere un’opera di fantasia. Brown invece ha preferito puntare sul gossip, nel vero senso della parola. Perché la verità spesso può essere noiosa e la vita del lettore piatta. Fatto sta che per correre ai ripari l’Opus Dei, con grande sobrietà e stile, ha chiesto che la loro posizione venisse rivista e contemporaneamente ha iniziato una campagna informativa massiccia per fugare ogni dubbio.
Ovvero: marketing e ufficio stampa.
Capitolo 5: il plagio
Il libro da cui sembrerebbe avere in magna copia attinto Dan Brown è un testo storico divulgativo del 1982 dal titolo Holy Graal, Holy Blood, scritto da tre ricercatori britannici, Michael Baigent, Richard Leigh ed Henry Lincoln (si può facilmente trovare anche in Italia, edito da Mondatori, con il titolo Il santo Graal. L’edizione dei Miti uscita lo scorso autunno ha un eloquente lancio sulla testata: il libro che ha ispirato Il Codice Da Vinci…). Quest’ultimo non si è associato alla causa intentata ai danni di Brown, cosa che certamente andrà a vantaggio dell’autore. La denuncia si basa sul fatto che i due libri parlano della stessa cosa (che preferiamo non rivelare, visto che non è detto che tutti abbiano letto il romanzo e rovinare la sorpresa in un thriller è davvero un peccato mortale). Brown sembra comunque aver fatto un grosso errore facendo in qualche modo omaggio ai due autori, dato che Sir Leigh Teabing, una delle figure chiave del romanzo (interpretata da Sir Ian McKellen che completa il ricco cast, insieme a Jean Reno nei panni del commissario Fache, e a Jurgen Prochnow e Alfed Molina), è chiaramente un anagramma dei cognomi dei due, il cui libro è addirittura parte della biblioteca dello stesso Langodn.
All’udienza che si è tenuta il 13 marzo, Brown ha dichiarato che è stata la moglie a ispirare il romanzo, cosa che rimarca ulteriormente nei ringraziamenti nella dedica, amorevolmente tutta per la dolce Blythe. Vedremo chi la spunterà…
Epilogo
Se dovessero chiedermi: “Com’è Il codice Da Vinci?”. Il libro o il film? “Il film.” Meglio del romanzo. Per tutte le ragioni elencate. E anche perché la trama che gli è stata creata intorno prima del suo arrivo nelle sale è forse appassionante come quella che scorre nel corso delle cinquecento pagine scritte da Brown. Già, perché Hollywood ha fatto quello che gli riesce meglio: creare la suspence per qualcosa che tutti, o almeno molti, già sanno come andrà a finire. Se dobbiamo dare delle stellette, quindi, le diamo a chi ha costruito quest’operazione straordinaria, e tutti vanno ovviamente promossi a pieni voti.