Il mercato del fumetto indipendente non è complicato solo dalle nostre parti. Anche negli Stati Uniti, dove colossi come Marvel e DC Comics sono costretti a inventare continuamente nuove soluzioni per tenere oltre la linea di galleggiamento le vendite della maggior parte delle testate, il mondo del fumetto underground ha le sue problematiche. Quando nel 2002 la IDW Publishing fece uscire la prima parte della trilogia di 30 Days of Night, (30 giorni di notte) graphic novel vampiresca scritta da Steve Niles e illustrata da Ben Templesmith, nessuno avrebbe scommesso due dollari sul suo successo.
Infatti, per molti mesi si è trattato solo di una delle tante miniserie che non avrebbe avuto fortuna a lungo. Invece, grazie al passaparola su internet e alle indubbie qualità dell’opera, 30 giorni di notte, pubblicato in Italia da Magic Press, è arrivato fino al settimo volume, ha avuto l’onore di essere trasposto sullo schermo con ottimi risultati e ha dato nuova linfa al genere vampiresco che ciclicamente necessita di una trasfusione.
Noi preferiamo limitarci ad analizzare i primi tre libri di questa saga che ha varcato anche l’atmosfera, portando i vampiri nello spazio grazie allo Space Shuttle, perché i due episodi ambientati a Barrow, Alaska, intervallati dall’avventura a Los Angeles, sono quelli che meglio rendono l’idea della poetica di Niles e del talento grafico di Templesmith.
Già l’idea di partenza è a dir poco affascinante: una città in mezzo al nulla dell’Alaska che resta senza sole per trenta giorni e un branco di vampiri che la fa sua per cibarsi degli abitanti. Un eroe senza macchia che si sacrifica, un’eroina al suo fianco che lo amerà oltre la vita e per l’eternità e tutt’attorno un corollario di piccole e grandi miserie umane contrapposte al nichilismo dei non morti, esseri primordiali che non accettano la presunta superiorità di una razza dettata esclusivamente dal suo essere viva.
Lo sviluppo del massacro, descritto con grande fascino dal tratto naif di Templesmith, disegnatore che si rifà non poco a Bill Sienkiewicz e al Dave McKean di Arkham Asylum, e la conseguente discesa agli inferi dello sceriffo Eben, eroe classico catapultato in una storia orrorifica direttamente dal western, genere americano per eccellenza, sono la chiave di volta del successo di 30 giorni di notte.
Fumetto estremamente cinematografico sia nella narrazione che nelle situazioni, 30 Days deve non poco ai grandi maestri del cinema di genere degli ultimi anni, Carpenter su tutti. I riferimenti a Vampires e, soprattutto, The Fog e Distretto 13 sono evidenti, ma la cosa che lascia più piacevolmente sorpresi di tutta la saga di Barrow, almeno nella trilogia iniziale, è la forte vena melò che caratterizza il rapporto tra Eben e Stella, disposta a tutto nel secondo volume della serie, Giorni oscuri, per vendicare il marito e ricongiungersi a lui, in un modo o nell’altro.
Sebbene a una prima lettura l’opera di Steve Niles possa sembrare solo un susseguirsi di dissanguamenti e teste mozzate, un’analisi del racconto fa balzare agli occhi i molti diversi livelli della serie, da quello sociale, in cui la minoranza non sono i vampiri, ma paradossalmente gli umani, a quello politico, dato che risulta chiaro che il prosperare dei figli della notte sia stato agevolato da ingerenze dai piani alti del governo. Una metafora neanche troppo velata di quella che era la situazione politica e sociale americana nel 2002, subito dopo l’attentato del World Trade Center e con l’amministrazione repubblicana pronta a emettere il Patriot Act.
Niles purtroppo non spinge a sufficienza sull’accelleratore in questo senso, ed è un peccato, perché 30 giorni di notte sarebbe potuta diventare una graphic – pamphlet di notevole spessore, ma non ci dispiace accontentarci di quello che è, ovvero un fumetto che rinverdisce l’horror a fumetti in un periodo in cui tutto il genere, anche il cinema, trascina stancamente idee trite e ritrite.
E già questo non è poco.