Pinocchio, storia di una storia. Che è stata, ed è, storia di un’ossessione. Lo stesso Stanley Kubrick era affascinato dalla favola di Carlo Collodi, che virò in versione futuristica nella sceneggiatura di A.I. portata poi sullo schermo da Steven Spielberg. E mentre Guillermo Del Toro continua a lavorare sulla sua versione animata per Netflix, forse pronta nel 2021, Matteo Garrone torna dal suo viaggio ai confini della civiltà, quella di Dogman, violenta e alienante, per seguire i passi del burattino di legno.
Al contrario del collega messicano, Garrone confeziona tutto in tempi relativamente rapidi per un film di questa portata. Ci riesce grazie a un team di valore assoluto in ogni comparto, al suo talento registico, e soprattutto seguendo fedelmente l’opera collodiana.
Il suo Pinocchio è all’apparenza una rilettura molto classica
Con i vari episodi dell’epopea del burattino di legno messi in fila diligentemente, raccontati con attenzione filologica e grande fascino visivo. Insomma, un compito ben svolto e non complicato per un cineasta che ha costruito macchine ben più contorte nella sua carriera.
All’apparenza. Che spesso inganna. E Garrone, della mistificazione della realtà, è maestro. La trasforma agli occhi di un Truman napoletano convinto di vivere in un grande Reality. La scarnifica in Primo amore, la confonde e la ribalta continuamente ne L’imbalsamatore (film da cui ha poi attinto a piene mani Bennett Miller per il suo magnifico Foxcatcher).
L’apparenza che inganna di un burattino, che burattino non è.
È un uomo, che non riesce a staccarsi dal suo essere bambino, sempre in cerca di un Geppetto (eccezionale Roberto Benigni, che fa ammenda dei suoi errori diciassette anni dopo), di una direzione, un inganno, una delusione che lo faccia crescere, finché non arriverà, finalmente, il momento di trasformarsi definitivamente. E guardare avanti.
L’ossessione nasce da qui, dalla necessità di ogni autore che ha affrontato Pinocchio di guardarsi dentro. Garrone lo fa, mettendosi in gioco in prima persona, a tratti lasciando più che trasparire il dolore sommesso di una perdita e di molte occasioni scivolate, assumendosi responsabilità che sono ferite che si cureranno lentamente.
È un’opera complessa questo Pinocchio
Sentita tanto, anche troppo, per questo a tratti apparentemente estranea al suo cinema. In realtà più vicina ai suoi piccoli grandi film, in molti passaggi ritroviamo l’anarchia esistenziale di quel gioiello, ancora tra i suoi film più belli, di Estate romana, con il meraviglioso Victor Cavallo, altro bambino, di materiale ben più fragile del legno, in cerca di un sè.
Spiazza Pinocchio, certamente se lo si guarda superficialmente pensando solo alla fiaba. Affascina se si ha la voglia di entrarci e di scavare. Il primo scrigno racchiude un evidente punto di svolta nel cinema di Garrone, quello che solo in parte era riuscito con Il racconto dei racconti. Andando oltre, potreste trovare uno specchio, che non vi dirà che siete i più belli del reame.
Ma questa, è un’altra storia.