Della sua interpretazione si parla ormai da mesi, già dalle prime immagini apparse in rete. Pierfrancesco Favino è senza alcuna ombra di dubbio uno dei migliori attori italiani, uno che è stato capace di duettare con Brad Pitt senza fare una piega (e rivaleggiando in fascino), forse l’unico nome spendibile all’estero. Aiutato da un trucco prostetico che nulla ha da invidiare a quelli hollywoodiani, Favino è semplicemente il nucleo del film, il perno attorno al quale tutto ruota. Il suo Bettino Craxi è assolutamente veritiero, non solo credibile, e il lavoro fatto sulla voce ha qualcosa di affabulatorio.
Merito della sceneggiatura di Gianni Amelio, merito dei truccatori: l’attore è fin troppo modesto, ma la sua innegabile preparazione arriva attraverso le risposte alla nostra intervista.
In Hammamet scompare Pierfrancesco Favino: la trasformazione fisica è incredibile, ma anche nella voce.
È quello che Gianni Amelio mi ha chiesto di fare. Penso che sia anche una velleità che io possa scomparire ogni tanto e non occupare lo spazio di un uomo così importante. Se io fossi comparso in qualche modo, la cosa avrebbe distratto. Era un uomo che aveva un’enorme consapevolezza di sé, ma anche di come appariva, della sua voce e anche di come usarla. Però tutti noi, o almeno buona parte, hanno memoria di chi è stato Craxi in Italia. Sarebbe stato anche difficile tradire quella memoria, sarebbe stato distraente. Dietro questa cosa però c’è altro. Non è un’imitazione, ma un tentativo di comprendere ciò che c’era dentro quest’uomo, indipendentemente da come appariva.
Come hai studiato per essere così uguale a lui?
Come mi preparo sempre. Ovviamente in questo caso c’era tantissimo materiale da poter vedere, da poter leggere. C’era già una bellissima sceneggiatura da cui poter partire. Quando uno script è così, puoi anche appoggiarti a quella sceneggiatura, sapere ciò che è utile o più utile investigare e ciò che lo è di meno.
E per te cosa è stato più utile indagare?
Quello che personalmente mi interessava è stato capire cosa accadeva a questo essere umano, che si chiamava Bettino Craxi. Che stava accadendo in quei giorni all’uomo. E mi è venuto in mente che, anche in passato, ci sono stati dei grandi drammaturghi che, per far capire agli uomini contemporanei cosa stava accadendo loro, sceglievano i re e le regine. E forse, se può capitare ai re di perdere il proprio potere, la propria forza fisica e avvicinarsi alla morte, vuol dire che può capitare a chiunque, anche all’ultimo degli uomini. Se noi non sapessi di star raccontando la storia di un uomo realmente esistito e di così gran potere, staremmo comunque raccontando la vicenda di un uomo che questo arco attraversa.
Per te è stata una riscoperta di questo uomo? E magari anche del suo spessore politico?
Penso che lo spessore politico Craxi lo abbia sempre mantenuto. Nel senso che non credo sia stato mai messo in dubbio il suo peso, la sua importanza a livello politico. Semmai è stato messo in discussione altro. Credo, almeno. E il fatto che io mi senta costretto a dire “credo”, vuol dire che non ne so a sufficienza, e non è per non parlare di ciò che è avvenuto che lo dico, ma perché penso che quella generazione politica, da una parte e dall’altra, da qualsiasi ambito la andassimo a prendere, ci ha lasciato una cosa: la specificità della loro preparazione, la competenza. Mi ha fatto impressione come, rivedendo i discorsi parlamentari dell’epoca, di qualsiasi spicchio di parlamento, la sensazione è stata lo stupore che siano passati solo trent’anni, che io ero abituato a sentire quella competenza. Mi ha fatto pensare il fatto che gli anni non sono stati così tanti. E si è persa una generazione di persone che credevano che la politica avesse bisogno di un certo tipo di preparazione. Ma non essendo un politico di professione, non avendo nessuna velleità e nessun talento per farlo, la mia scelta è dire quello che penso politicamente della vita attraverso quello che faccio. E il mio mestiere mi dà molte possibilità in questo senso. Ma credo che della vicenda debbano e possano parlare solo poche persone molto informate dei fatti. E credo che, per quanti libri io abbia potuto leggere in cinque, sei mesi… onestamente non posso certo sostituirmi a loro.
La famiglia è venuta sul set? Hai avuto modo di conoscerli e di avere riscontri?
Innanzitutto ho molto ammirato la libertà che ci è stata concessa. Per me rimangono uno dei primi termometri per misurare la temperatura del film. Immagino che arrivi da me il Signo Nessuno e mi dica ‘Ciao, devo fare tuo padre’, la prima cosa che mi verrebbe da dire è ‘Ma tu che cosa ne vorrai mai sapere di chi era mio padre?’. Questa cosa che io faccia Pinelli, che io faccia Buscetta, che io faccia Bartali o qualcun altro, è sempre il primo pensiero che ho. Il secondo è di non essere intrusivo nel rapporto d’amore che c’è tra un padre e una figlia, un figlio, un marito e una moglie… Sono sicuramente i miei primi giudici e anche coloro di cui ho temuto di più il giudizio. Ho visto da parte loro un’immediata fiducia e sono grato. Penso sia difficile dare fiducia a qualcuno che non conosci, per quanto tu possa averlo visto lavorare.
Hai detto che non è un’imitazione, infatti ciò che mi ha colpito di più della tua interpretazione è stata l’eleganza, il senso della misura. Sarebbe stato facilissimo gigioneggiare in questo caso. Come ci hai lavorato, sia da solo che con Amelio?
Innanzitutto la sceneggiatura viene da Gianni Amelio, quindi lui ha dettato dall’inizio alla fine la misura e la temperatura del film. Una cosa che mi ha molto impressionato sin dai primi giorni è stata come la troupe reagiva alla mia vista. Perché loro non mi vedevano, mai mi hanno visto con la mia faccia. Solo i truccatori mi vedevano: Andrea Leanza e Federica Castelli con Massimiliano Duranti, che si occupava dei capelli. Gli altri non mi vedevano mai con la mia faccia. E io, come arrivavo sul set, notavo che si creava uno strano atteggiamento di reverenza… con persone con cui ho lavorato già! E che mi dicevano ‘Io così non riesco a parlare di cose di cui normalmente parleremmo’ – tanto è vero che ho fatto tre feste durante le riprese, così potevano vedermi dal vivo… Però lì ho capito che questo era un aspetto he le persone subivano già, e che quindi non avrei dovuto spingere troppo. Un’altra cosa che invece ho scelto deliberatamente di non usare, era le famigeratissime pause di Craxi, che cinematograficamente non credo avrebbero avuto l’effetto che invece avevano in quelle che erano le sue enormi capacità di saperle usare. Probabilmente avrebbero non solo rallentato il senso del film, ma forse anche il senso di ciò che gli accadeva emotivamente nell’arco del film, quindi era più interessante che alcuni aspetti che lo hanno reso celebre fossero utilizzati e altri no. Quello che mi interessava veramente, e spero sia venuto fuori, è ciò che accadeva nella pancia di quest’uomo, ciò che gli stava succedendo e che forse non poteva dire.
O forse non ha mai detto a nessuno…
Non credo.
Anche perché racconti la parte che noi italiani non avevamo mai visto, cioè la sua agonia.
L’agonia, il tramonto… la perdita. Penso che la perdita sia un tema giusto. Il mio primo pensiero, vedendo il film, è che ha una qualità abbastanza rara, che è quella della piétas. Vedendo la vicenda di quest’uomo, io rifletto su di me. E mai avrei pensato di farlo, dal momento che è un uomo così diverso e così lontano da me.
Il passaggio dalla scrittura, la cui custode è la figlia, alla televisione per comunicare… Credi sia stato vissuto come un tradimento?
Credo sia stata una naturale evoluzione. E credo che Craxi avesse già pienamente compreso tutto questo. Che lì sarebbero andate e finire tante delle capacità e possibilità, non solo in negativo, della televisione. O di quello che sarebbe stato il mondo culturale. Sicuramente c’è stato un grandissimo passaggio, ma sarebbe avvenuto comunque. Credo che sia stato uno degli esponenti del mondo politico per cui si è perso il senso del noi a vantaggio dell’io. Da quel momento in poi, anche dopo la caduta del Muro di Berlino, molto raramente si è continuato a dire ‘noi’ durante un comizio.