In tempo di Covid-19 ci occupiamo di fiction perché non ci sono film? Non proprio. La nostra testata si occupa da sempre di un problema denso come la violenza di genere, pertanto l’invito a parlare di Bella da morire è stato accettato con entusiasmo.
La nuova fiction Rai, diretta da Andrea Molaioli e interpretata da un’attrice da sempre attiva sull’argomento come Cristiana Capotondi, si concentra sul femminicidio. Partendo dal presupposto che una bella ragazza morta, uccisa, sia un femminicidio. Dandolo per scontato dall’inizio di quello che, essendo un crime, non dovrebbe dar proprio nulla per scontato.
E allora ribadiamolo ancora una volta: femminicidio non è quando una donna viene uccisa. Femminicidio è quando una donna viene uccisa in quanto donna, con moventi che presuppongono il possesso, la superiorità maschile sul femminile. Trovare il cadavere di una donna non significa necessariamente trovarsi di fronte a un femminicidio. Le parole sono importanti, proprio nella comunicazione sbagliata non si riesce a cambiare la mentalità imperante, tutt’oggi, che vede diminuire sempre troppo lentamente il numero di femminicidi e purtroppo mantiene costante il numero di violenze sulle donne. Ribadito questo, cercheremo di essere indulgenti. Perché una fiction non è un film, lo sforzo produttivo è diverso e, purtroppo, si pensa debba semplificare al massimo gli argomenti per arrivare a un pubblico vasto e popolare.
Volevo essere Twin Peaks: la storia di Bella da morire
Impossibile non notare le similitudini con la più grande serie di sempre. Un’agente versata a certi casi arriva da fuori, in una piccola località montana, dove tutti si conoscono e tutto sembra piacevole e pacifico, ma dove si è consumato un brutale omicidio ai danni di una ragazza. In realtà non si sa subito, perché quando Eva torna a casa, a Lagonero, Claudia è solo sparita. Solo in seguito, grazie al suo hobby per le immersioni, Eva ritroverà il cadavere di questa bellissima modella. La giovane agente è tornata per sua sorella, una mamma single un po’ incasinata, e la vita l’ha indurita molto. I suoi ex colleghi la definiscono pazza, ossessiva, rompicoglioni, molto competente. Le viene assegnato un partner, Marco, che manco a dirlo è un suo ex compagno di scuola da sempre cotto di lei. In una sequela di cliché si snodano le indagini che potrebbero riguardare un qualunque omicidio, ma Eva è convinta che quando una donna muore sia sempre e solo per un motivo.
Andrea Molaioli, che tanto apprezzammo per La ragazza del lago, torna a un panorama lacustre e la sua mano registica si nota. Nonostante la sceneggiatura e i dialoghi: semplici, troppo, rasentano la faciloneria, mescolano in un calderone tutto e niente, dal razzismo all’alcolismo, dall’omicidio agli uomini che devono sempre provarci con una bella donna. Tutto assieme, per dire che gli uomini fanno tutti schifo, o quasi. Eva, Marco, il procuratore Anita Mancuso: ogni personaggio è tagliato con l’accetta, ma soprattutto la protagonista, sempre corrucciata, sempre tesa, arrabbiata, concentratissima e ossessionata sul problema. Parlarne sempre e di continuo, senza distrarsi mai: questa non è una donna forte. Al contrario, è l’immagine dell’insicurezza fatta donna, matematica, in cerca di continue conferme e senza alcuna ironia. Cristiana Capotondi non aiuta a darle spessore: ogni volta che pronuncia una battuta, sembra stia facendo un proclama da una pubblicità progresso. Meglio il suo partner Matteo Martari, sebbene il suo personaggio sia molto più prevedibile degli altri.
Può questa fiction sensibilizzare al problema?
Parlarne sempre e comunque. Sono in molti a sostenere questa teoria. Ebbene, chi scrive non è d’accordo. Se un argomento delicato come la violenza di genere, in questo caso ridotta al solo femminicidio, deve essere raccontato male, sarebbe quasi meglio non farlo affatto. La cattiva comunicazione sta contribuendo da decenni a non sradicare il problema nel nostro Paese. E uno sceneggiato in quattro puntate, del quale abbiamo visionato le prime due, che ne parla in modo così superficiale non pensiamo possa aiutare. Certo che davanti a una bella ragazza uccisa il grande pubblico condanna l’orribile gesto. Scontato. Ma questo racconto non smuove mezza coscienza tra quelle che invece vanno educate a pensare che la violenza di genere sia radicata anche dentro di loro. Il femminicidio non solo non viene spiegato, ma nei primi due episodi non viene nemmeno mai nominato. Si dà tutto estremamente per scontato.
Avevamo detto che saremmo stati indulgenti e lo siamo. Anche se abbiamo dovuto rateizzare la visione perché la recitazione sospirato-orgasmica, tipica del formato, proprio ci risulta intollerabile. Evitiamo lo spoiler, ma il colpo di scena al termine della seconda puntata sarebbe la ragione per cui bisogna assolutamente dare giustizia a una povera ragazza. Prima invece l’assassino poteva restare a piede libero? Questo e molti altri scivoloni confermano ciò che da sempre sosteniamo: il pubblico va educato, i fondi destinati alle opere culturali che trattano certi argomenti vanno distribuiti meglio. Decisamente meglio di così.