Voi sapete cos’è uno sparacibo? E un Toga Party? E sapreste tenere qualcuno sotto doppio controllo segreto? Se non conoscete tutte queste nozioni basilari del consorzio civile, vuol dire che non avete mai visto Animal House, il che vi rende senza dubbio delle persone tristi e con un’ombra che da sempre si addensa sul vostro animo depresso. Ma non preoccupatevi, a tutto c’è rimedio, anche alla morte, come diceva il vecchio Barone Von Frankenstein.
L’anno era il 1978 e una nuova generazione di giovani cineasti si stava facendo largo, nella scia di Steven Spielberg e George Lucas, reduci dai loro primi grandi successi. Landis, insieme a Joe Dante, Jonathan Demme e pochi altri valorosi, rappresentava l’anima più indipendente e meno commerciale di un movimento creativo in grande fermento. Lo aveva dimostrato con Schlock, il suo film d’esordio, corrosiva satira sulla società americana post Nixon, lo confermò con questo college movie ancor più profondo delle trovate, geniali, di un giovane John Belushi che qui dà vita alla sua prima grande maschera, quella di John “Bluto” Blutasky.
Animal House è un film sulla nostalgia di epoche passate
Nella sua scatenata goliardia invero più simile ad American Graffiti che a successive più pecorecce filiazioni. Landis racconta la storia di un gruppo di amici e di un momento irripetibile e lo fa senza indulgere in sentimentalismi, ma con la frenesia scanzonata di chi non vuole, ancora, pensare al futuro. Ad Animal House deve tanto il Fandango di Kevin Reynolds e soprattutto i fegati e i cervelli di tre generazioni successive vissute nel mito di devastanti toga party.
Da comprare, vedere e rivedere. E tanto per la cronaca, io riuscivo perfettamente a schiacciarmi una lattina di birra vuota sulla testa. Ma voi non provateci.