Save The Last Dance For Me, il grande successo dei The Drifters, compie nel 2020 sessant’anni. Il sesto anello NBA dei Chicago Bulls di Michael Jordan ventidue. Entrambe le cose sono poesia pura. La storia dei Bulls nel ’98 anche qualcosa di più.
The Last Dance è anche l’evocativo titolo del documentario che racconta quella stagione straordinaria. Poteva anche essere Un anno vissuto pericolosamente, tanto per citare il mai abbastanza ricordato Peter Weir, ma quell’ultimo giro di pista con MJ, Scottie, Rodman, Toni e tutti gli altri dalla casacca rossa ha un sapore molto più romantico.
La Storia è nota, nel dettaglio ovviamente solo agli appassionati della narrativa del parquet, che di grandi racconti, anche tragici purtroppo, è piena.
Stagione 1997-98. I Chicago Bulls hanno appena vinto il loro quinto titolo in sette anni, la squadra è una delle più forti di sempre nella storia dell’NBA, eppure ci sono tanti problemi. Phil Jackson, il genio della lampada, l’allenatore che ha messo insieme questa macchina perfetta, è inviso al general manager dei Bulls, che lo vorrebbe fuori. Senza Jackson, Jordan non avrebbe problemi a ritirarsi per la seconda volta, e con lui buona parte della squadra se ne andrebbe.
A partire da Scottie Pippen
Probabilmente la miglior ala piccola di tutti i tempi, a mio modesto parere migliore anche di Larry Bird, Julius Erving e LeBron James. Pippen era molto scontento per il trattamento economico, figlio di un contratto molto lungo, ma anche relativamente povero. Complice anche un infortunio, Pippen non inizia la stagione, sperando di essere ceduto o di potere strappare un rinnovo a migliori condizioni.
Nel frattempo Denis Rodman, il più grande difensore di tutti i tempi, si era stufato del basket, mentre Toni Kukoc non voleva più essere il miglior numero sei della NBA. E i mugugni non erano finiti, da Ron Harper a Steve Kerr ogni giocatore aveva qualche sassolino nella scarpa.
La conseguenza era logica: la peggiore partenza in campionato dell’era Jordan. E Michael non è contento, perché nella sua testa c’è solo un obiettivo: vincere.
The Last Dance è un documento di vitale importanza
Proprio quell’anno, i Chicago Bulls autorizzarono una troupe a seguire la squadra costantemente, sin dalla preparazione del campionato, dando loro accesso anche agli spogliatoi e a tutte quelle situazioni generalmente precluse alle telecamere. Dopo oltre vent’anni, e moltissime interviste a corollario del materiale d’archivio e del girato originario, ecco il risultato. E l’attesa valeva decisamente la pena.
The Last Dance non è semplicemente una chicca per gli appassionati di basket. Come sempre accade per le storie di sport, è un compendio di vita, reso ancora più potente dal momento che il mondo sta attraversando. Nel pieno di una pandemia mondiale, vedere un gruppo di atleti che mette da parte gli interessi personali per raggiungere un obiettivo comune, è a dir poco commovente e di grande ispirazione.
The Last Dance, Michael Jordan, anatomia di un leader
Ogni squadra ha bisogno di un capo. Durante la sua carriera di giocatore, nessuno nella storia dello sport ha ricoperto questo ruolo meglio di Michael Jordan. Lui era la star, sapendo che avrebbe dovuto faticare il triplo degli altri per questo. Scorrere le statistiche di Jordan durante la sua carriera professionistica è impressionante. Nel corso degli anni, è migliorato costantemente in ogni elemento del gioco. Tiro da tre, palle recuperate, rimbalzi, tiri liberi, assist. Dove non era il migliore, lo sarebbe diventato. Sudando, allenandosi, studiando se stesso e gli avversari. Se necessario, reinventandosi.
Le dieci puntate di The Last Dance, che molto intelligentemente Netflix non mette a disposizione in binge watching, ma centellina a due per settimana a partire dal 20 aprile, sono carburante preziosissimo nello scenario contemporaneo.
Il mondo non ha bisogno di un Superman, ma di mettere da parte l’individualismo che lo ha portato a condizioni estreme di odio e intolleranza. Non dovrebbero esistere più un “IO”, ma solo un Noi, e la lucidità e l’umiltà da parte di tutti di riconoscere delle leadership giuste e autorevoli, liberandosi da zavorre deleterie che, purtroppo, stanno provocando disastri e tragedie in molte parti del mondo. Soprattutto anglofone.
The Last Dance racchiude il meglio della letteratura sportiva
Che di fatto è la più grande metafora della vita, come ci hanno insegnato i racconti di Ring Lardner, le storie del diamante in forma fantastica di Philip Roth , Robert Coover e W.P. Kinsella, la filosofia del green di Bagger Vance.
Quando vedrete MJ, agli ultimi secondi di gara 6 delle Finals contro gli Utah Jazz, muoversi sul parquet, dal momento in cui la palla si stacca dal palmo della mano di Dio, vi passeranno davanti agli occhi fallimenti e vittorie, gioie e dolori.
La vita in tre decimi di secondo.
Non dura molto più. Ma bisogna meritarsela. Fino all’ultimo tiro. Fino all’ultima danza.