Quando si bluffa l’inganno deve essere perfetto, specie nel campo dell’arte della recitazione, dove la menzogna e il raggiro sono fondamentali. Non basta entrare nella parte, si deve seriamente fingere. Il cinema offre lo spunto: non mettere la cravatta a un tavolo che la richiede. Come lo spaccone Henry Gondorff quando si cala a menadito nella parte del villano ubriaco dinanzi al furioso Doyle Lonnegan. Sono passati quasi quarant’anni da quella Stangata eppure c’è chi non ha capito ancora i trucchi del mestiere.
The Double, pellicola diretta e scritta da Michael Brandt con l’amico Derek Haas, vorrebbe rileggere la lezione più recente della spy story infittendola di finte piste e false identità. I freschi modelli Jason Bourne e il recente James Bond sono irraggiungibili. Purtroppo di doppio in questo film c’è la sola iniziale del cognome dei due interpreti, Richard Gere e Topher Grace.
Il primo è Paul Sheperdson, un agente della CIA solo e in pensione richiamato in servizio dal suo capo (un sempre convincente Martin Sheen) mentre il più giovane Ben Geary lavora all’FBI ha una bella moglie (la Odette Yustman di Cloverfield e Dr. House) e due figli piccoli. Insieme si metteranno sulle tracce di un pericoloso assassino ritenuto responsabile dell’omicidio di un senatore degli Stati Uniti, ucciso con un metodo criminale inconfondibile. A essere generosi è doppio anche il ruolo ricoperto da due inseparabili sceneggiatori, qui nelle vesti uno di regista e l’altro di produttore. Gondorff insomma pare aver seminato a vuoto.
Nonostante la tenuta da thriller ricco di inseguimenti, scontri a fuoco e drammi personali, infatti, The Double cede il passo all’effetto meno speciale: la sorpresa. Dopo solo mezz’ora di visione il pubblico scoprirà chi si cela dietro la fantomatica identità misteriosa del titolo, sempre se non avrà avuto la sfortuna di incappare nel trailer rivelatore. Poco interessa veder spuntare i nomi in codice di Bruto e Cassio: le idi di marzo hanno fatto già fatto la loro dignitosa comparsa nella sale. A nulla vale anche la scelta di puntare al rilancio, dopo il mancato colpo di scena, quando i giochi sono fatti.
Peccato perché se la scelta dei protagonisti non sta piedi, Stephen Moyer, nei panni di un pericoloso villain sovietico, è quasi un funambolo in bilico sul baratro narrativo. Certo anche l’attore inglese di True Blood sfiora l’umorismo involontario quando per guadagnarsi l’infermeria e fuggire dalle sbarre si fa una scorpacciata di pile elettriche, ma il personaggio funziona. Interessante è poi l’immagine di Washington sporca e randagia, teatro ideale per una storia di maschere, spie e gole recise.
Dopo gli script vincenti per Wanted di Timur Bekmambetov e il remake dell’indimenticabile Quel treno per Yuma a firma James Mangold, i due inseparabili compagni di copione falliscono il loro tentativo più ambizioso. Come dire, “è inutile essere un artista se devi vivere come un impiegato”.