La pratica del remake è una delle costanti dell’industria cinematografica americana fin dagli anni Venti, quando Hollywood si strutturò poggiandosi sulla cosiddetta “politica dei generi”. Nel corso degli anni, alla tendenza a riportare in sala successi passati, è stata accostata anche quella di rifare pellicole di produzione straniera, in particolar modo europea. Questo processo di rivisitazione e aggiornamento si è sempre più adeguato alla necessità più specifica del cinema americano, l’intrattenimento.
L’uscita in sala in questo mese di due film appartenenti a questa categoria, A cena con un cretino e Stanno tutti bene, conferma che tale meccanismo è ormai consolidato negli Stati Uniti, soprattutto quando si tratta di riappropriarsi di meccanismi narrativi o personaggi potenzialmente “universali”, quindi esportabili in un contesto produttivo come quello hollywoodiano.
La cena dei cretini, il remake è servito
Datato 1998, l’originale era diretto dallo specialista della commedia francese degli equivoci Francis Veber (La capra, L’apparenza inganna). Al posto degli originali Thierry Lhermitte e Jacques Villeret c’è una coppia comica pienamente collaudata, formata da Steve Carell e Paul Rudd. I due hanno infatti già collaborato in 40 anni vergine, che nel 2005 si è rivelato un enorme successo di pubblico e ha lanciato la carriera cinematografica non soltanto dei due attori, ma anche del regista Judd Apatow.
A fungere loro da spalla uno dei volti comici più interessanti degli ultimi tempi, quel Zach Galifianakis lanciato dallo spassoso Una notte da leoni e che verrà sicuramente confermato come star del genere dal prossimo Due Date, accanto a Robert Downey Jr. Al timone di A cena con un cretino è stato chiamato Jay Roach, altro cineasta che con questo genere ha piazzato una serie impressionante di successi commerciali con le due saghe di Austin Powers e Ti presento i miei.
Al botteghino made in U.S.A. la coppia Carell/Rudd ha funzionato ancora una volta, seppure senza sbancare: settantadue i milioni di dollari incassati dal lungometraggio, cifra che con i guadagni ottenuti all’estero trasformerà la produzione in un soddisfacente successo commerciale.
Ben diverso è il discorso che concerne Stanno tutti bene.
Chi ricorda l’omonimo film diretto da Giuseppe Tornatore subito dopo Nuovo cinema paradiso? La trama era incentrata su un anziano signore che, sentendosi vicino alla fine dei propri giorni, decide di intraprendere un viaggio per il nostro paese e ritrovare figli e famiglia, i cari che non vede da troppo tempo. Interpretato da un grande Marcello Mastroianni, il film non incontrò il favore della critica e del pubblico, subendo anche la penalizzazione di essere arrivato dopo il successo del film precedente, premiato addirittura con l’Oscar.
In compenso ebbe una sorte diversa negli Stati Uniti, dove incontrò maggiormente il favore delle recensioni. Siccome a Hollywood difficilmente ci si dimentica delle storie che piacciono, ecco che a quasi vent’anni di distanza il film è diventato Everybody’s Fine, remake diretto dal quarantaseienne inglese Kirk Jones.
Il cast è impressionante: un’icona come Robert De Niro nel ruolo che fu di Mastroianni, a cui si aggiungono attori di nome e soprattutto talento come Sam Rockwell, Kate Beckinsale, Drew Barrymore e Melissa Leo. Uscito in America nel dicembre del 2009, probabilmente perché possa competere per Oscar e Golden Globe, il film si è dovuto accontentare della sola candidatura al Globe per la canzone di Paul McCartney (I want To) Come Home.
La capacità di Jones di costruire storie interessanti intorno a personaggi interessanti era stata già esplicitata nello spassoso esordio Svegliati Ned e anche, un po’ a sorpresa, nella favola moderna Tata Matilda, interpretata da una sorprendente Emma Thompson. L’agilità della regia e la prova collettiva del cast hanno fatto guadagnare a Stanno tutti bene il plauso della critica, fattore che però non ha aiutato il film al botteghino statunitense, dove ha guadagnato poco più di dieci milioni di dollari.
Evidentemente i remake di film italiani non hanno fortuna negli ultimi tempi: vedi The Last Kiss di Tony Goldwin, rifacimento de L’ultimo bacio di Gabriele Muccino, e ancor prima il caso eclatante Swept Away di Guy Ritchie, che nel 2002 ottenne persino due candidature ai Razzie Awards come peggior film e peggior interpretazione femminile del decennio.
Concedeteci una piccola annotazione sulfurea: e se questo successo parziale dipendesse dalla qualità dell’originale? Quando a essere riproposti erano capolavori come Le notti di Cabiria di Fellini o Profumo di donna di Risi, ne uscivano grandi successi (magari anche soltanto commerciali) come Sweet Charity di Bob Fosse o Scent of a Woman di Martin Brest.
A buon intenditor…