Faccio il giornalista da 22 anni e tra tante frustrazioni e ingiustizie ho però vissuto il privilegio di poter incontrare persone eccezionali, che hanno costruito il mio senso critico, popolato, anzi quasi tiranneggiato il mio immaginario, insegnato quanto il talento altrui sia prezioso per crescere, se sai apprezzarlo e capirlo davvero. Uno di questi, uno degli incontri più belli che io abbia mai fatto fu con Michel Piccoli.
Una dozzina d’anni fa, a Locarno, probabilmente il festival che amo di più, il primo evento cinematografico internazionale a cui sono andato da giornalista.
Un’ora di chiacchiere, di sigarette, di incazzature e risate. Un ricordo indelebile. Divenne un articolo per Liberazione (che col fallimento ha portato il proprio archivio, pure quello digitale, al macero e all’oblio). Eccola qui la nostra intervista, Michel, per ricordarti preferisco usare le tue parole. Le migliori (questa è la versione estesa, non tagliata).
Parlavamo di Sur le toits de Paris, film di Hinaar Salem su un’estate transalpina assassina con 15.000 anziani morti di caldo e mi fa strano ripensarci ora nel mezzo di una pandemia che sta operando un generaziocidio, uccidendo i nostri nonni e genitori. Allora il caldo, ora il virus ci mostravano e ci mostrano le falle di un sistema capitalistico redditizio economicamente per pochi e fallimentare per tutti, umanamente, moralmente e persino fisicamente.
Quell’anno Locarno ti diede un premio alla carriera. Ma tu eri lì anche con un film in concorso e nel palmares finisti anche come migliore interpretazione maschile, ex aequo con Michele Venitucci. Parlammo sotto il sole, tra i due il più in forma era lui.
Io Michel ti saluto ringraziandoti per Dillinger è morto, per Glauco, perché due dei miei registi preferiti, Bunuel e Ferreri, hanno trovato in te un’ispirazione e un veicolo del loro (e tuo genio).
Mi mancherà, mi mancherai, come quegli auguri al tuo compleanno e le tue risposte inaspettate.
Ciao ragazzo che voleva essere Totò.
Michel Piccoli, cosa le provoca il doppio premio nel sessantesimo compleanno di Locarno?
Due effetti, un grande piacere ma anche un peso, perché quello alla carriera ho paura sia uno di quei premi che si ottengono solo dopo una certa età. E mi rompe terribilmente. Io non guardo indietro, mai. Preferisco il secondo, con tutto il rispetto!
La sua carriera non è finita di sicuro. E allora, per non farla arrabbiare, parliamo di come è iniziata.
A nove anni i miei genitori mi spedirono in collegio. Non era un posto molto esaltante, ma ci si allestivano piccole rappresentazioni teatrali messe in scena dagli studenti. La prima interpretai una parte in un testo di Ibsen, La vita meravigliosa di un re, recitando di fronte a parenti ed amici. Ero uno dei sarti che lasciarono il re nudo, e nonostante la mia terribile timidezza di allora dissi a mia madre che il palcoscenico sarebbe stato il mio futuro. Fu una nuova nascita per me. Loro non mi ostacolarono, ma mi misero alla prova. Furono coraggiosi, allora era una strada difficile e non lastricata dai facili guadagni attuali, anche se mi ritengo fortunato ad aver iniziato in un’epoca in cui i soldi non erano così importanti. A diciannove anni cominciai a frequentare i piccoli teatri parigini, entrando in contatto con grandi personaggi come Jouvet e Pitoeff. Erano registi squattrinati, ma l’esperienza fatta con loro fu per me molto importante, soprattutto perché mi permetteva di avere un contatto nuovo con il pubblico.
Poi arrivò l’occupazione nazista e la guerra….
Gli anni immediatamente successivi alla fine dell’occupazione nazista furono densi di fermenti straordinari: era l’epoca del quartiere St. Germain, in cui si faceva teatro ovunque. Eravamo tutti senza niente nel portafoglio -spesso non avevamo neanche quello!- ma Sartre, Camus e Vian frequentavano quell’ambiente e così li conobbi. Il Teatro Babilon era uno dei luoghi più d’avanguardia della città e lì interpretai i miei primi Beckett e Ionesco.
Ancora un occhio al passato ci guardiamo. Cosa ricorda di Marco Ferreri? E non sbuffi… (con fare un po’ civettuolo mostra insofferenza verso questo amarcord) dopo parleremo anche dei progetti futuri.
Marco Ferreri è una delle persone che più mi manca nella vita, come amico e come regista. Amavo la sua ricerca molto intelligente di spiegare come uomini e donne possono riuscire a vivere insieme: aveva tre passioni nella vita. La donna, che lui amava contrariamente a ciò che si diceva, il mare e i bambini. Come anche Bunuel e molti altri, purtroppo ne muoiono molti ultimamente di amici e sodali. Penso ad Antonioni e Bergman, che hanno commesso un grande errore nella loro vita: non avermi mai chiamato a lavorare per loro! Gli italiani mi preferivano Mastroianni: un grande amico, uno splendido attore, un impareggiabile latin lover.
Cosa pensava di Michelangelo Antonioni?
Non l’ho conosciuto, ma solo guardandolo posso dirti che Antonioni è talmente bravo che si potrebbe persino pensare che il cinema l’ha inventato lui.
Dell’Italia cosa invidia?
Avrei sempre voluto il talento di Totò.
Lei è innamorato del cinema italiano vecchio stile
Ho un grande ricordo del cinema italiano e per questo mi addolora che ora sia diventato altro. Forse quei registi erano troppo grandi e si deve aspettare almeno una terza generazione. Oppure è colpa di Berlusconi. O di entrambe le cose. Il cinema italiano soffre per ragioni politiche e finanziarie.
Colpa di Berlusconi? Quindi teme che Sarkozy possa far male al cinema francese?
No, un doppio effetto Berlusconi è impossibile, spero. Sarkozy è molto furbo, non intelligente ma scaltro, arrivista, grande lavoratore dall’enorme energia che cerca costantemente, ma non ci riuscirà a lungo, di nascondere che è di estrema destra. E forse anche i francesi, come l’Italia, stanno andando in deliquescenza e per questo l’hanno votato. Il mondo, le persone marciscono e così questi uomini possono arrivare al potere.
Spesso si dice che il problema della politica è che sia diventata spettacolo, e i politici attori…
Magari fosse così, almeno sarebbero professionali! E’ vero che per noi attori la cosa più importante è coinvolgere gli spettatori e “piacere”. Ma il nostro edonismo ha spesso dei limiti: l’attore deve credere nella parte che recita anche se al pubblico non piace. E se diventi una celebrità devi conservare la modestia sia nel lavoro che nella vita. Ti risulta che i politici lo facciano?
In Italia la tv è considerata come il demonio, è cosi anche in Francia?
In Francia la situazione è simile, il finanziamento per gli audiovisivi è indirizzato alla tv, che è una dittatrice globale, mondiale. Ti obbliga a un certo formato: devono esserci solo belle ragazze sotto i 23 anni e nessuno sopra i 34, le meravigliosi attrici anziane sono completamente sparite e soprattutto devono piacere al grande pubblico. Che è un modo ipocrita per dire: dobbiamo rincoglionire. La tv è una dittatrice nella politica, nella vita, nella creatività, nello sfruttamento commerciale. Credo che sia l’opinione di tutti, tutti facciamo zapping che poi altro non è che un tic patologico, sintomo di un rapporto malato con questo mezzo. Ormai abbiamo paura di parlare tra noi, e questo riguarda tutti gli strati sociali, poveri e ricchi. C’è persino un modo di parlare dettato dal linguaggio televisivo, le sole verità escono dalla tv, si parla di lei come un tempo si faceva citando Dio o il Papa. E poi c’è il dramma di chi ci lavora, che si vergogna, a ragione, più di chi la guarda. E’ una forma di terrorismo economico, propagandistico, morale, artistico e politico.
Dove trova tutta questa energia Michel Piccoli?
Devo ringraziare autori, registi, colleghi attori che mi hanno insegnato i segreti della vita e come godermela. Un talento dei grandi realizzatori, come lo sono ora i cinesi, gli iraniani, i coreani. E non parlo solo di quelli più intellettuali. Sono i più grandi ora, ma in tv non li vedremo: perché in occidente non siamo capaci di capire gli altri da noi. Sempre la solita tv che divide il mondo in due: quelli che la vedono dalle 6 del mattino alle 23, i “poveri stronzi”, e poi i nottambuli, gli intellettuali, questa parolaccia. Loro possono far tardi, tanto non devono lavorare.
Farà un altro film come regista?
Si, si chiamerà Mia moglie avrà una macchina, una commedia su una donna che compra una macchina, un ministro gentile e tanti dialoghi un po’ surreali.
Una vita piena, ma niente Hollywood. Pigrizia?
In America non hanno bisogno degli attori europei. Tra gli anni Trenta e i Quaranta del secolo scorso hanno avuto una generazione di attori sublimi, ora solo marionette. Sublimi anch’esse. Hollywood è una straordinaria macchina produttiva e di potere, ma troppo autoreferenziale, non a caso la distribuzione dei film stranieri negli USA è quasi nulla, mentre in Francia si vedono film provenienti da tutto il mondo. Non aiuta la nostra economia, ma fa molto bene al nostro intelletto.
E tornerà a lavorare con Oliveira, vecchietto inesauribile come lei?
Ma lui ha quasi cento anni, è tutt’altra pasta! Oliveira è un mostro, fisicamente perfetto, un extraterrestre. Intelligente, colto, ha quattro idee all’anno per fare un film, e li farebbe se glielo permettessero. Ha una passione per il cinema incredibile, che forse, con la sua intelligenza, lo aiuta a vivere così a lungo. Ama molto anche i film degli altri. E si diverte tanto, questo è il segreto.
E’ passata un’ora. Tutti e due siamo in ritardo e ci lasciamo con la stessa riluttanza con cui ci eravamo avvicinati, io per timore reverenziale per un mito, lui forse per una certa insofferenza ai giornalisti. La chiacchierata è stata punteggiata da battute, anche irripetibili, ma mai volgari. Ride, guarda la mia sigaretta con desiderio ma ci mette un po’ a chiedermela, aspetta che l’amico (agente?) si allontani, atteggiamento curioso per uno spirito libero. Sprigiona carisma e fascino, ma non ne abusa. Bicchieri e tazze hanno invaso il nostro tavolo, insieme alle sue parole e alle nostre risate. Spesso indignate.