È bene cominciare immediatamente con una precisazione: ho guardato ogni episodio della docu-serie con l’astio di un appassionato di basket ferito nel profondo. I motivi sono principalmente due. The Last Dance arriva alla fine di un percorso di approfondimento sulla figura di Michael Jordan iniziato anni fa, principalmente attraverso libri quali Blood on the Horns e la biografia del giocatore, entrambi scritti da una penna raffinata e integerrima qual è Roland Lazenby.
Sulla base di quanto letto e visto prima di avvicinarmi a The Last Dance, sento di poter affermare con discreta cognizione di causa si tratti di un prodotto che, dietro una confezione meravigliosa, nasconde pura e semplice propaganda. Quella di un giocatore inarrivabile e di uno sportivo invece discutibile. Ci sono alcuni fondamentali aspetti che The Last Dance sminuisce, trascura o addirittura omette riguardo i Chicago Bulls e Michael Jordan. Aspetti tecnici e umani che proverò a esporre più avanti.
Il secondo motivo della mia delusione, generata da un dolore più profondo e forse più importante, è la scomparsa prematura di Kobe Bryant avvenuta lo scorso 26 gennaio. Non so spiegarlo a parole, ma percepisco che qualcosa a livello emotivo c’entri. Sono un tifoso dei Los Angeles Lakers da quando avevo sei anni, esattamente dal 16 giugno 1980 (chi ama il basket – non solo il team giallo-viola – sa che è una data storica…). Bryant non è mai stato il mio giocatore preferito, forse neppure nella mia Top 10. E proprio adesso che ne scrivo mi rendo conto che non lo era proprio per quegli aspetti che lo legano a Michael Jordan. Probabilmente la questione tornerà più avanti in queste righe.
Torniamo però a The Last Dance
Il mio intento dichiarato – e schierato, voglio ribadirlo – è quello spiegare perché Michael Jordan non ha vinto da solo il titolo NBA 1997/98 e i cinque precedenti. Ne è stato l’artefice primario, chi può negarlo? Ma non l’unico, e a conti fatti neppure il più importante…
Sistema >Talento
Il primo artefice del successo dei Chicago Bulls a mio avviso ha un nome e cognome: Tex Winter. E faccio subito notare che The Last Dance a lui e alla sua rivoluzionaria triangle offense dedica cinque minuti scarsi in dieci puntate. Spiegato in maniera sommaria si tratta di un sistema di gioco che adoperando delle spaziature precise sul campo permette di generare molteplici soluzioni di tiro e adattarsi con velocità ai diversi schieramenti della difesa.
Un altro fattore fondamentale perché funzioni è che la palla giri tra i giocatori fino a trovare il momento e lo spazio più consoni per attaccare/tirare. Questo significò fondamentalmente togliere il pallone dalle mani di Jordan, che in precedenza ce l’aveva incollato come fosse un tesoro da difendere da tutti. Soprattutto i compagni di squadra. Gli isolamenti e le forzature dei primi anni di carriera hanno garantito al campione dei Bulls performance straordinarie, così come allo stesso tempo hanno consentito ad avversari organizzati, quali ad esempio i Detroit Pistons di Thomas, Dumars e Rodman, di fermarlo quando arrivavano le partite da vincere sul serio, quelle dei playoff.
Non è un caso se Michael Jordan non è mai arrivato in finale prima dell’introduzione della triangle offense nella stagione 1989/90. E penso sinceramente ci sarebbe riuscito anche quell’anno se non fosse stato così apertamente recalcitrante a fidarsi dei compagni di squadra e consegnar loro la palla, per poi riceverla nuovamente al momento e nello spazio più opportuni.
Altra prova a favore del sistema di gioco: successivamente Jackson e Winter introdussero la triangle offense nei Lakers altamente disfunzionali di Kobe Bryant e Shaquille O’Neal. Risultato? Altri tre titoli di fila, più un altro paio conquistato ancor più avanti senza Shaq ma grazie a co-protagonisti come Pau Gasol, Lamar Odom e il “venerabile maestro” Derek Fisher.
In sintesi: senza uno dei migliori sistemi di basket mai inventati Michael Jordan non avrebbe vinto sei titoli NBA. Probabilmente molti meno. Sono piuttosto convinto che non sarebbe riuscito a prevalere contro i Phoenix Suns di Charles Barkley e gli Utah Jazz della coppia Stockton/Malone. E questo ci porta ad altri personaggi che The last Dance ha minimizzato se non addirittura ridicolizzato…
Collettivo > Singolo
Phil Jackson è stato il più abile manipolatore della storia del basket contemporaneo. Non necessariamente sempre in senso positivo, tutt’altro. Il suo obiettivo unico e vincente è sempre stato quello di costruire un’unità di squadra più forte di qualsiasi pressione interna o esterna. Per farlo ha adoperato la sua celebrata filosofia zen ma anche una notevole quantità di sotterfugi.
Tanto per intenderci, Roland Lazenby lascia chiaramente intuire nella biografia su Jordan che fosse proprio Jackson e non Horace Grant la “talpa” del libro-scandalo di Sam Smith. È stato lui a iniziare o alimentare più o meno direttamente molte altre controversie che pian piano hanno inimicato la squadra alla dirigenza. E grazie a questo – oltre ovviamente alla sua incredibile capacità di entrare nella mente e nel cuore dei giocatori – Jackson ha pian piano prodotto in Jordan uno scivolamento psicologico fondamentale: da “io contro il mondo” si è passati a “noi contro il mondo”. Ciò ha permesso ai Bulls di diventare quella magnifica sinfonia di basket, invece che il semplice l’assolo di un solista.
Qui entra in gioco uno degli aspetti più irritanti di The Last Dance
Il trattamento univoco riservato a una figura comunque contraddittoria come quella di Jerry Krause. Alla fine del decimo episodio soltanto “l’odiato” Scottie Pippen ha ricordato i meriti del general manager dei Chicago Bulls.
Quello che, dopo aver silurato il coach Collins, ha capito che il suo assistente senza molta esperienza nell’NBA Phil Jackson sarebbe stato perfetto per allenare la squadra. Quello che ha portato nel roster il talento cristallino proprio di Pippen, ma anche giocatori di ruolo fondamentali che rispondono al nome di Steve Kerr, Ron Harper o Toni Kukoc. Quello che alla fine non si è opposto quando Jordan tornato dal ritiro si è imposto per portare ai Bulls l’odiato Dennis Rodman, conscio che la squadra aveva bisogno di elevare il proprio gioco difensivo per tornare a vincere (a proposito, perché secondo voi questo non c’è nella docu-serie? Lazenby lo testimonia ampiamente nei suoi libri…).
Jerry Krause ha avuto un grande, fatale difetto: come Jordan aveva assoluto bisogno di dimostrare di essere il migliore, ma ciò era dovuto prima di tutto alla sua insicurezza. La sensazione è che “His Airness” proprio non poteva sopportare un altro personaggio con la stessa competitività ma senza la sua sicurezza interiore, e questo l’ha portato a trattare il GM dei Bulls in un modo che in The Last Dance è stato riportato in maniera a dir poco edulcorata.
Trovate la biografia di Lazenby e ne saprete di più. Quindi Jordan si aspettava che l’uomo di cui aveva abusato per anni avrebbe rinnovato la squadra ancora e ancora continuando a spendere decine di milioni di dollari per degli atleti ben sopra i trent’anni?
Proviamo a inquadrare il nocciolo di The Last Dance dal punto di vista prettamente manageriale: dopo cinque titoli in bacheca, con il sesto più che possibile, chiudere il ciclo dei Bulls da trionfatori era il miglior modo possibile. Dal momento che ormai il rapporto dirigenza/allenatore/squadra si era logorato irrimediabilmente – e parliamo di anni, non di una stagione o due – Krause prese la decisione più impopolare, ma la più logica per il suo ruolo. E avrebbe certamente meritato più credito e soprattutto rispetto per il suo operato, a prescindere dal suo carattere obiettivamente possibile. Ma a quanto pare soltanto Pippen ha seppellito l’ascia di guerra.
Squadra > Campione
Partiamo stavolta dalla fine con una constatazione solo apparentemente provocatoria: senza Dennis Rodman i Chicago Bulls non avrebbero sconfitto gli Utah Jazz nel ’97 e ’98. Anche se le statistiche dicono che Karl Malone giocò due finali ad alto livello, il campo invece raccontò che il “Verme” riuscì effettivamente a limitarlo: a entrargli sotto pelle, a renderlo un minimo più incerto, un secondo più lento, un metro più lontano dal canestro, un centimetro più in basso per raccogliere il rimbalzo. Insomma, tutti quei piccoli fattori quasi intangibili su cui Rodman ha costruito la sua arte della difesa.
Ogni volta che il maltrattato centro di ruolo Luc Longley lasciava il posto al numero 91, ecco che il tono della partita cambiava. L’asse Stockton/Malone era probabilmente il meccanismo più oliato e affidabile della seconda metà degli anni ’90, forse anche più della triangle offense dei Bulls. Serviva quindi qualcuno che sapesse come far scivolare quei pochi ma fondamentali granelli di sabbia necessari per rallentarlo, magari addirittura logorarlo.
Rodman fece il suo solito lavoro di sacrificio, quello sporco che pochi altri avevano la perseveranza di fare. E quando Jordan va a strappare il pallone dalle mani di Malone nell’azione del leggendario ultimo canestro di Gara 6 a Salt Lake City, è anche perché il “Postino” aveva tentennano quel solito mezzo secondo grazie alla marcatura di Rodman.
E lui è solo il primo esempio di un team composto di grandiosi attori di supporto che nei sei campionati vinti hanno avuto un impatto molto più grande di quanto The Last Dance non metta in scena. Primo tra tutti ovviamente Scottie Pippen, primo alfiere e giocatore completo in ogni singolo aspetto del gioco. Ma non mi soffermerò a lungo sull’importanza e la classe del numero 33, poiché The Last Dance a scrivere il vero l’ha mostrata con pienezza.
Meglio invece a mio avviso sarebbe dovuta andare con John Paxson, il “traditore” Horace Grant, il talento imprevedibile di Toni Kukoc e soprattutto la sapienza di Ron Harper. Ma la danza finale non è veramente stata quella dei Chicago Bulls, se a scegliere la musica è stato solo Michael Jordan…
Sportivo > Giocatore
“Quando prima delle finali hanno iniziato a fare paragoni tra me e Clyde Drexler, beh…mi sono offeso.”
“Quando Karl Malone vinse il premio di MVP della stagione nel 1997, beh…”
Un uomo di sport, che amava il gioco almeno quanto la competizione e la vittoria, non avrebbe adoperato quelle parole, e in particolar modo il tono in cui le ha pronunciate. Per non parlare del trattamento mediatico riservato nel corso delle puntate (ma anche degli anni) ai suoi compagni di squadra Toni Kukoc, B.J. Armstrong e altri.
Volendo adoperare una scala di giudizio soltanto meritocratico, c’è veramente da chiedersi se Michael Jordan – il più grande giocatore degli anni ’90, sia chiaro – sapesse chi erano Drexler e Malone. CLYDE DREXLER e KARL MALONE. C’è da chiedersi se abbia mai rispettato sportivi meno dotati di lui che si sono spaccati la schiena per diventare magari giocatori di ruolo affidabili, faticando per costruirsi una carriera accettabile che permettesse loro i guadagni necessari per continuarla.
Perché è vero che Jordan dava tutto ciò che aveva in allenamento. Ma lo avrebbe fatto se avesse avuto le qualità cestistiche di un Bryon Russell, tanto per citare il più che degno difensore da lui pubblicamente umiliato? Lavorare duro, durissimo per vincere e diventare il miglior giocatore è ammirevole e condivisibile. Farlo senza la certezza di eccellere, o magari anche solo per amore del gioco, è l’essenza prima dell’essere uno sportivo.
Il livello di rispetto per il basket – inteso come universo composto da atleti e non che condividono idee, regole e codici – è stato altissimo se vediamo Jordan con l’ottica di un giocatore, il che è legittimo e inopinabile. Lo è stato però molto meno se invece consideriamo l’idea di sportivo. E in un mondo ideale questa non dovrebbe in nessun caso essere una dicotomia…
L’analisi su The Last Dance e sulla figura di Michael Jordan è incompleta – ci sarebbero molte altre questioni maggiormente tangenziali su cui dibattere – e settaria, allo stesso modo in cui ho percepito esserlo la docu-serie. Aggiungo un ultimo paragrafo dettato da senso di frustrazione di cui avevo accennato all’inizio dell’articolo. Allo stesso modo in cui ho “vissuto” The Last Dance come il racconto di un uomo ancora non pacificato con ciò che ha vissuto, così voglio chiudere con un discorso che testimoni anche solo in maniera sconclusionata quanto sia ancora amareggiato per l’ingiustizia dello scorso 26 gennaio.
Bryant > Jordan
Michael Jordan ha settato dei parametri precedentemente sconosciuti quando si tratta di dedizione all’allenamento, alla competizione agonistica, alla ricerca di perfezione nel gesto tecnico-fisico. Kobe Bryant li ha studiati a fondo per anni, fatti propri ed elevati. È indiscutibile che il primo sia stato l’originale, il maestro e l’altro “soltanto” l’allievo. Bryant però è riuscito a farne una disciplina ancor più rigorosa, alimentata da un fuoco interiore che col passare degli anni e delle vittorie ha bruciato più lui stesso che le persone intorno a lui.
Il controllo del proprio gioco in relazione all’avversario sviluppato da Bryant a mio avviso ha raggiunto un livello superiore rispetto a quello di Jordan. E al tempo stesso ciò si è accompagnato alla sua crescita umana, che gli ha permesso di abbandonare progressivamente l’arroganza feroce dei primi anni in favore di una progressiva accettazione delle regole del gioco in un’estensione più ampia del termine.
The Last Dance ci ha mostrato un MJ ancora oggi frustrato
Perché non ha vinto quel settimo titolo, perché non ha trionfato ancora su tutto e tutti. Quel “Mamba out” pronunciato da Bryant alla fine della sua ultima partita allo Staples Center – dopo sei anni senza vittorie, il che lo rende ancora più sincero – ci ha raccontato di un uomo felice, appagato dallo sport che ha amato, ma insieme desideroso di metterlo da parte per entusiasmarsi di fronte a nuove sfide. E questo rende la sua scomparsa ancora più tragica, personalmente ancora inaccettabile.