La critica cinematografica – e non solo – è vittima di tre M: è troppo spesso moralista, militante, militare. Una provocazione, ma neanche tanto. In una branca della cultura in cui si deve trovare la forza e l’onestà intellettuale per uno sguardo libero, siamo sinceri, molti sono condizionati da idee personali, ideologie (tra)passate, morali politicamente corrette.
Per carità, è anche vero che tutti noi siamo ciò che pensiamo e inevitabilmente, recensendo, siamo vittime dei nostri sentimenti, delle nostre convinzioni, delle nostre speranze. Ma non ce l’ha prescritto il medico di ergerci a giudici e osservatori di una delle più belle esperienze creative che esistano. E dal momento in cui scegliamo un mestiere che per soddisfazioni e riconoscimenti è secondo solo a quello dell’arbitro di calcio, dobbiamo farlo comunque al meglio.
E allora fa male vedere che è al di là di coloro che usano categorie affascinanti come “bello” o “brutto” (categoria estetica inapplicabile, a mio parere, in ogni campo, essendo frutto di una soggettività parzialissima), c’è chi si fa condizionare nel giudizio, ad esempio, dalle lenti della politica. Faremo un paio di esempi, spingendovi a proporcene altri.
La dimostrazione sta nelle critiche feroci nei confronti di Kathryn Bigelow
Da alcuni definita addirittura una nuova Leni Riefenstahl (che, sia chiaro, era una regista clamorosa e una nazista convinta: quindi grande come artista, infame come persona, sono due cose evidentemente diverse) per aver girato Zero Dark Thirty.
Basta dare uno sguardo alla pellicola per vedere che lei ha voluto fotografare un’ossessione, un momento storico, un’azione di intelligence. E porre l’interrogativo, pesantissimo, di quanta democrazia tu possa esportare prima di non averne più a casa tua. Non mostra la normalità della tortura per giustificarla, a parere di chi scrive, ma per raccontarla. Semplicemente è avvenuta e per un’analisi totale e onesta dei fatti, va ricordata e inquadrata nel suo uso funzionale.
Pesantissimo da digerire, come quegli artificieri di Hurt Locker.
La loro paranoia, la loro paura ti entrava dentro. E sono sensazioni brutte da sentire addosso. Amorale sarà la Bigelow o chi nel film vede una giustificazione della tortura? Moralista nello sguardo, militante (anzi, militonta come dice con arguzia il collega Matteo Alviti) nell’ottusità, militare nello schierarsi compatta contro il babau fascista, ecco com’è molta della nostra critica moderna. In Italia, ma non è privilegio solo nostro questo atteggiamento: pensate alla Francia, che in questo diventa spesso grottesca.
Non si deve aver paura di dire le parole sbagliate e magari di ridere con l’orsacchiotto bastardo Ted. E, diciamocelo, se pure si vuole ragionare in maniera così limitata, francamente sorprende il maschilismo sotterraneo che sta nell’attacco alla Bigelow.
Spielberg, ad esempio, mette in campo la realpolitik di Lincoln
Orgoglioso compratore di voti e determinato legislatore emergenziale in tempi di guerra (a un certo punto fa un discorso che ricorda Berlusconi e Bush). Ovviamente lo fa alla grande e tirando fuori tutta la complessità di un paese, gli Stati Uniti, lacerato da pesantissime contraddizioni.
E in questo caso i critici lo hanno capito tutti: la buona fede del super regista maschio, però, non si mette in dubbio. E questa disparità di genere c’è da sempre: non è forse vero che la Riefenstahl è stata odiata e insultata, mentre l’architetto Speer, confidente (e forse non solo) di Hitler è stato, di fatto, quasi assolto dalla Storia e da Norimberga?
Fuori dalla politica, comunque, il moralismo è la vera malattia della cultura italiana. E del cinema tricolore: si ha paura di rompere regole non scritte, di raccontare storie che esistono ma che preferiamo ignorare. Di andare oltre.
Non c’è niente da fare, ha sempre avuto ragione Frankie Hi Nrg Mc. Il problema di questo nostro maledetto paese è sempre è solo uno: la dittatura muta di Quelli che ben pensano.