Non possiede nulla dei suoi personaggi più famosi. Nessuna traccia dello Straniero senza nome o di William Munny, tanto meno di Henry Callahan o Walt Kowalski. Osservandolo mentre si siede al tavolo tornano invece in mente la gentilezza e la saggezza di Robert Kinkaid, il fotografo de I ponti di Madison County. Ma neppure questo basta a definirlo. Perché Clint Eastwood non può essere rinchiuso nei confini di un personaggio, come capirete in quest’intervista.
Di sicuro non può essere catalogato dentro il ruolo di Gus, lo scontroso e irascibile protagonista di Di nuovo in gioco. “Sono molto più calmo di lui, soprattutto ora che sono diventato più vecchio. Da giovane hai delle energie che magari non sai come utilizzare, adesso sarebbe stupido sprecarle per gesti scomposti, dal momento che me ne rimangono molte meno!”
Gus è un uomo che non accetta la vecchiaia. Come vive la sua età Clint Eastwood?
Abbastanza bene, sono fortunato perché ancora mi diverto molto a fare film, penso di essermi amministrato bene per riuscire a non odiare il mondo del cinema. A un certo punto ho iniziato a prendermi cura del mio lavoro, ho scelto di passare dietro la macchina da presa al momento giusto. Poi ho anche vissuto periodi in cui dirigevo senza recitare, che è molto meno stressante.
Gus si trova a lavorare con sua figlia Mickey, interpretata da Amy Adams. Lei nella vita collabora con i suoi?
Non credo assolutamente al nepotismo, ho lavorato con Kyle alle musiche di qualche film perché credo sia veramente bravo. Ho altri figli che sono attori e li ho adoperati solo quando erano adatti. Scegliere gli attori giusti è così importante per un film che non si può assolutamente rischiare di sbagliare, non si può comprometterlo con errori, ci rimarrei malissimo. Quando fai bene il cast, poi lavori molto meglio, in agilità e con molto più affiatamento.
Che tipo di padre è Clint Eastwood, aperto al dialogo o più vecchio stile?
Non so che tipo di padre sono. Probabilmente vecchio stile. Ogni genitore a un certo punto della sua vita si volta indietro e si chiede se ha fatto bene con i propri figli. Adesso che sono vecchio ci penso molto di più. In passato per me era difficile essere padre perché lavoravo e viaggiavo tutto il tempo. È una valutazione complicata, penso di averla a cuore. Negli ultimi film in qualche modo ho raccontato questa tensione nei rapporti padre/figlio che avevo sul grande schermo, da Million Dollar Baby a Gran Torino a quest’ultimo.
Ma almeno comunica con i suoi figli meglio di quanto fa il suo personaggio fa nel film?
Di sicuro.
Quali sono i problemi del Clint Eastwood di oggi?
Non ne ho. Amo il mio lavoro e sono contento di chi e cosa sono. Di problemi ne avevo da ragazzo: con la mia famiglia eravamo costretti a trasferirci di continuo, e cambiando sempre scuola non riuscivo a stringere vere amicizie. Ero un giovane molto inibito, non riuscivo a esprimermi. Mi ha aiutato lo sport, mi sono appassionato un po’ al basket e ho praticato l’atletica.
Sente di aver sacrificato in qualche modo gli affetti familiari per la carriera?
Quello che ho sacrificato? La sanità mentale! A parte gli scherzi, quello che so è che la mia vita è stata divertente, ho avuto successo e ci sono dentro da quasi sessant’anni, quindi credo ne sia valsa la pena. Alla fine un uomo prova a fare delle scelte, qualche volta gli riescono, ed ecco che la tua vita si riempie. Se ancora ho voglia di continuare, forse significa che è andata bene…
Qual è la parte migliore di essere un filmaker?
Senza dubbio essere un regista. Si possono esprimere i propri concetti, portarli dentro una storia. Se mi piace una sceneggiatura posso lavorarci fino alla parte finale della realizzazione, se sei soltanto un attore, spesso reciti una parte e basta, è più difficile inserire qualcosa di personale.
Come è successo che Robert Lorenz, uno dei suoi collaboratori più stretti, sia finito a dirigerla in Di nuovo in gioco?
Sono più di quindici anni che lavoro con lui e ha sempre fatto un ottimo lavoro. Qualche anno fa mi ha accennato che un giorno gli sarebbe piaciuto dirigere un film, quando è arrivata questa sceneggiatura gli ho chiesto chi secondo lui l’avrebbe dovuta dirigere. Robert tergiversava, ma sapevo che voleva farlo lui, così alla fine ci siamo messi d’accordo.
L’uscita del film in America è stata preceduta dal suo intervento alla convention di Romney. Molti hanno pensato che l’abbia fatto per fare pubblicità al film…
La gente non va a vedere un film perché un regista è schierato politicamente. Ho fatto molti film di successo e le mie idee non c’entravano niente. Lo stesso vale per i fiaschi. Se poi il pubblico sceglie un film politico, ci devono essere anche delle altre ragioni, prima tra tutte la bontà stessa del prodotto.Non ho bisogno di pubblicità, almeno non di quel tipo.
Ne sentivo la necessità, me l’hanno chiesto e l’ho fatto. La mia preoccupazione principale è il debito pubblico: sono cresciuto negli anni Trenta, ho attraversato la Grande Depressione, ho visto i miei genitori dannarsi l’anima per mettere il cibo in tavola. La disoccupazione è un male che affligge l’America di oggi quanto quella di quel periodo. Questo mi preoccupa più di tutto, e mi sono diretto contro chi invece sembra non esserlo. È un problema a cui non è stata data la giusta attenzione, almeno non ultimamente, né dall’amministrazione né dalla sfera politica che dovrebbe fungere da garante per il popolo. Ecco perché ho partecipato alla convention di Romney.
Se un avvocato o un dottore prende posizione politica viene preso sul serio, se lo fa un attore sta cercando pubblicità…
Certo, giudicano quanto siamo bravi! A parte gli scherzi, credo sia una questione di scelte individuali, a prescindere dallo schieramento politico, se si è abbastanza preoccupati riguardo alcune questioni è legittimo manifestare la propria idea. Un errore più grande di esporsi sarebbe quello di non farlo. Se abbiamo coscienza di quello a cui teniamo, comunque rendiamo un buon servizio al nostro paese e non lo lasciamo andare per conto proprio, non lo deludiamo.
Come quando ha scelto di impegnarsi in politica a Carmel?
Ho fatto il sindaco a Carmel per soli due anni, quello era il termine della carica e non me la sentivo di impegnarmi più a lungo. Penso sia stata una buona esperienza, in quel periodo ho anche fatto due film a cui sono molto affezionato, Gunny e soprattutto Bird.
Che rapporto ha Clint Eastwood con la Hollywood di oggi, quella piena di sequel, prequel, remake e supereroi?
Ognuno ha il diritto di fare il film che vuole. Ammetto che talvolta mi deprimo un po’ perché ripenso a quando ho cominciato ad andare al cinema, negli anni Trenta. C’era una varietà incredibile di commedie originali e altri generi. I sequel erano molto rari. A me sta bene che adesso si facciano molti film per il pubblico più giovane, ma penso dovrebbero farne di più per tutti i tipi di spettatori. Nell’ultimo anno ho visto soprattutto film europei perché non ero particolarmente interessato a vedere eroi americani in calzamaglia o armatura…Voglio dire, sono fuori età per i comic-book e tutto quello che adesso rappresenta il business che conta.
Da quando ha esordito alla regia con Brivido nella notte è cambiato tutto o quasi, dal modo di riprese al montaggio alla postproduzione. Come si è adattato a questa metamorfosi?
Per quanto riguarda il passaggio dalla pellicola al digitale mi sono trovato benissimo, anzi ha migliorato il mio metodo, che di solito è molto rapido. Lavorare in digitale l’ha reso ancora più efficace, non devi preoccuparti di fare troppe prove con le inquadrature e le luci. Però non credo che farò un film in 3D, è una tecnologia che non mi interessa, il mio gusto è rimasto un po’ indietro da questo punto di vista. Per me la storia viene ancora prima, e tutto il resto serve dopo. Se non hai una storia, quello che ci metti sopra conta poco e non servirà a migliorare un prodotto scadente alle fondamenta.
Dunque il rapporto di Clint Eastwood con la tecnologia è buono?
Abbastanza, non sono maldestro come Gus. Ad esempio mi sono letto lo script di questo film sull’iPad, perché con lo schermo già illuminato potevo farlo anche di notte e non disturbavo. Sull’iPad leggo tutto, dal Wall Street Journal al new York Times alla Gazzetta di Carmel. Più che altro, ci lavoro sulle sceneggiature che mi spedisce la mia assistente Christine.
In tutta la sua carriera c’è qualche cineasta con cui avrebbe voluto lavorare?
Sono tutti morti! Quando ho iniziato a fare cinema negli anni Cinquanta, c’erano i grandi registi di quella generazione: John Ford, Howard Hawks, John Sturges, con cui ho avuto la fortuna di lavorare più tardi. Però a quel tempo non avevo tante chances per collaborare con tutti i più grandi, probabilmente non ero ancora pronto. Con molti ho lavorato poi nel corso degli anni: con Steven Spielberg, ad esempio, abbiamo prodotto Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima.
C’è un film che considera il suo capolavoro?
Non lo so, penso che tutti insieme siano una bella opera. Alcuni li ho fatti per i soldi, altri mi sono stati assegnati. Sono legato a Gli Spietati, penso dica sul western tutto quello che volevo dire, e negli ultimi anni Lettere da Iwo Jima è quello che reputo il migliore, rispecchia come vorrei fare cinema. Comunque i film dipendono completamente dal materiale che hai, la disponibilità di chi lavora con te, il team che riesci a mettere insieme.
Se dovesse tornare indietro, cosa cambierebbe della sua carriera?
Non c’è ragione di guardarsi indietro, soprattutto per rimpiangere qualcosa che avresti potuto fare meglio. Lasciarsi il passato alle spalle serve anche a non ripetersi. Non sempre ci sono riuscito, e infatti in alcuni casi mi sono annoiato e ho fatto film noiosi. Ci sono momenti in cui devi essere realista, sia riguardo i film che riguardo la vita stessa.
Infine le chiediamo un ultimo favore: ci sveli il segreto del successo…
Mangiare bene e fare esercizio. È merito di mia moglie, che mi tiene a un regime molto disciplinato. Qualche volta è una questione genetica, ma spesso proprio questa ti tira brutti scherzi: mia madre ha vissuto fino a novantasette anni e mio padre invece è morto abbastanza presto. Non credo ci siano regole in questo gioco che è la vita. L’unica cosa da fare è prendersi cura di se stessi meglio che si riesce.
Critico cinematografico, vive a New York dal 2011. Scrive, tra gli altri, per Coming Soon, Screenweek, Best Movie. Viaggia da una costa all'altra del continente americano per raccontare il cinema a modo suo.