Il tassista che mi raccoglie all’aeroporto mi vuol convincere che Sofia è brutta. Non ha ben capito se sono qui per affari o per piacere, ma per non lasciare niente al caso mi indica il miglior locale di striptease della città. Vengo scaricato davanti a un complesso d’appartamenti piuttosto elegante, suite comode e ben arredate per la “gente del cinema” che sempre più spesso arriva sui Balcani.
L’email di qualche giorno prima era chiara: “vieni la settimana prossima. Ti aspettiamo!”, ma ancora non
ho idea di cosa mi aspetti. Ne approfitto per fare due passi fino a un supermercato locale, dove tutto è scritto in cirillico e le figure aiutano molto. Poi, come nei migliori thriller, suona il telefono.
“Ciao Massimo, sono Judy, ci vediamo domattina alle sette nella hall, per andare sul set”.
I cinematografari sono gente mattiniera. Ma io stanotte farò molta fatica a prendere sonno. Sono un ‘cultore’ del cinema di Peter Weir da venticinque anni. Ci conosciamo personalmente da diciassette. Tredici anni fa ho scritto il mio primo libro su di lui. Nel corso degli anni ci siam scritti, telefonati, inseguiti tra festival e conferenze stampa, abbiamo chiacchierato assieme a lungo, di cinema, di vita. Assieme abbiamo combinato uno scherzo da prete all’assessore alla cultura di Reggio Emilia, e fatto saltare l’allarme davanti ai quadri di Botticelli agli Uffizi a Firenze.
Ma c’è un giorno in cui, inspiegabilmente, uno dei tuoi sogni di gioventù si avvera. Per me è domani mattina alle sette.
Primo giorno sul set di The Way Back
Il pulmino ci aspetta. Giù c’è Judy, la responsabile del casting della produzione, e Michael, addetto alle location, entrambi veterani nel cinema di Weir. Poi mi sento chiamare da lontano: “Massimo!”. È Wendy Stites, ovvero la signora Weir, costumista, aiutante, alter-ego, e moglie di Peter da più di quarant’anni. Tanto più Peter è taciturno, schivo e pensa sempre molto prima di parlare, quanto Wendy è invece espansiva, loquace, iper-attiva.
Vive circondata di libri e riviste, è capace di intrattenere una conversazione su qualsiasi tipo di argomento con chicchessia. Peter e Wendy, proprio come in Peter Pan. Nel tragitto che ci porta verso gli studi Boyana, Wendy mi racconta del film, ma non riesco a nascondere il mio nervosismo.
La prima tappa all’interno del mastodontico complesso di chiaro stampo sovietico, dove si giravano vecchi film di regime, è l’atelier dei costumi, il regno di Wendy, un florilegio di bozzetti, stoffe, bottoni, manichini. Un piccolo gruppo di sarti è all’opera nel cucire, scucire, invecchiare, smacchiare. Il vero lato artigianale del cinema.
Affascinante, però… “Andiamo, ti porto da Peter”, dice Wendy. Apro il portone dello studio 5, che sarebbe forse più adatto a una cattedrale del nord Europa, visto il nero legno massiccio di cui è fatto, e di colpo mi ritrovo in Siberia. In un gulag. Facce da galera di tutti i tipi, omaccioni barbuti di etnie lontane. Vestiti da carcerati, un numero sulla divisa strappata, cercano di stare al caldo attorno a una stufa a legna.
Realtà e finzione si mescolano con rara efficacia, su questo set. Le comparse bulgare, scelte da Judy, potrebbero benissimo essere veramente prigionieri di un gulag, l’impatto d’insieme è fortissimo. C’è una baracca, dentro lo studio 5, tavole di legno e pareti di stoffa, qua e là gavette e stracci. Se non fosse per quella cinepresa Panavision piazzata in mezzo…
Da una tenda nera, intabarrato con sciarpe e guanti d’ogni tipo, sbuca Peter Weir. Ci abbracciamo, e mi invita a seguirlo. Piazza una sedia di fianco alla sua, che diventerà il mio punto di vista, decisamente privilegiato, da cui osservarlo all’opera. Avevo sempre desiderato vedere Peter Weir in azione su un set, e quale miglior occasione di questo The Way Back, il suo primo film girato sul continente europeo.
The Weir Way
Piano piano familiarizzo con il cast. Il giovane inglese Jim Sturgess che nel film interpreta Janusz, il protagonista, affiancato da Colin Farrell, Saorsie Ronan, e Ed Harris. O forse dovrei dire Mr. Smith, visto che sul set Harris praticava in maniera molto rigida il Metodo, e rimaneva sempre nel personaggio, quello appunto del taciturno Mr. Smith.
E poi con alcune figure chiave della carriera del regista australiano, presenti sul set di The Way Back,
come il produttore Duncan Henderson e il direttore della fotografia Russell Boyd, che cura le luci dai tempi di Hanging Rock.
Weir sul set riesce a mantenere la calma, e a pensare molto, anche circondato dall’allegro e coordinato caos di una troupe che si sposta tra un set-up e l’altro. Fuma nervosamente l’inizio di una sigaretta, per poi spegnerla quasi subito. Beve del tè, e poi si alza di scatto per andare a confabulare con un attore o con un operatore. Poi torna alla sedia, da cui balza via ogni volta che qualche idea o concetto gli arriva in mente.
La sua schedule giornaliera schianterebbe qualsiasi giovane virgulto aspirante cineasta, ma non questo determinatissimo sessantacinquenne. Sveglia alle cinque di mattina, alle cinque e trenta l’autista lo attende per scaricarlo sul set alle sei. Alle sette si inizia a girare, andando avanti fino alle due del pomeriggio. Nell’ora di pausa
pranzo si guardano i giornalieri e si discute con i produttori. Si gira ancora dalle tre alle sette, o oltre. Poi una riunione con tutti i capi-reparto, che finisce di solito verso le nove. A casa c’è Wendy che ha preparato un risotto, poi dritti a dormire. E sabato e domenica le riunioni si susseguono a ritmo serrato.
Il mio compleanno capita proprio sul set, di domenica, e Peter e Wendy mi organizzano, tra un meeting e l’altro, uno specialissimo tea party, mentre più tardi nel pomeriggio mi attende una diretta del Sei Nazioni (ogni critico cinematografico ha una debolezza sportiva, la mia è il rugby…) con Colin Farrell e compagnia nell’unico pub irlandese della città.
Gli attori si fidano molto di Weir. Lui si avvicina loro sul set, e spiega un momento, una sensazione, con un linguaggio astratto che però fa ben intendere la motivazione. Ogni ripetizione si arricchisce di nuovi elementi, e piano piano vedi il film prendere vita, scena per scena, inquadratura per inquadratura. E poi via, perché non c’è tempo e non c’è sfarzo in questo set bulgaro, dove sembra quasi che tutti siano qui per passione e per fede, e non certo per il guadagno. Si tira avanti a toast al formaggio e tè per tutti, con un ritmo serrato di più di venti set-up al giorno.
Alla macchina da presa, colpo di scena, un italiano, Lorenzo Senatore, entrato all’ultimo minuto nella troupe per sostituire un operatore infortunato. Giovane, è venuto a Sofia a fare cinema, e lo fa sul serio. E c’è anche un altro compatriota, Fabio Fioretti, che ha ricostruito un’intera foresta (“I miei alberi”, li chiama) all’interno dello studio 4. E poi fonici tedeschi, stagiste australiane, sarti inglesi, segretarie bulgare, la solita grande Famiglia Allargata del Cinema.
Anch’io ho il mio momento di gloria quando Judy mi chiede di aiutarla a contattare un’agenzia di casting romana – si cercano volti dai tratti orientali e un italiano d’origine giapponese sembra avere la faccia giusta. Quando finalmente riusciamo a rintracciarlo al telefono esclama anche lui: “Peter Weir? È il mio regista preferito!”.
A dream came true.
Non è facile registrare la quantità d’emozioni provate in un’esperienza simile. Anche la scorza dura del cronista viene messa alla prova e, come nel film di Cameron Crowe, si fatica a mantenere l’oggettività. Ci si chiede tante volte cosa succede ai sogni che non si avverano. Invece io adesso da domani dovrò cercarmene un altro. Però il tassista che mi riporta all’aeroporto di Sofia e verso la realtà, al posto di provare a vendermi la versione locale del capitalismo, mi suona felice a tutto volume le ballate tristi di Vladimir Vyssotski, il cantautore maledetto e dissidente dell’Unione Sovietica, che mi son sembrate una colonna sonora adattissima per i titoli di coda di questa avventura cinematografica balcanica.