“A dire il vero, ho sempre odiato i musical. Sono film terribilmente noiosi quando sei sul set, devi girare tantissimo per ogni scena, con molte macchine, fare un milione di ciak, e quando poi arrivi al montaggio chilometri di pellicola restano sul pavimento”.
Me lo disse, Alan Parker, come fosse quasi scontato, un pomeriggio di gennaio del 1999. Eravamo all’Hotel Hassler di Roma, per la presentazione di Le ceneri di angela, film tratto dal romanzo di Frank McCourt a cui il regista inglese teneva tantissimo. Non uno dei suoi migliori, a dire il vero, nonostante una magnifica Emily Watson. Sarebbe stato il suo penultimo, seguito solo da The Life of David Gale, opera controversa, per certi versi ideologicamente scorretta, ma anch’essa supportata da grandi interpretazioni di Kate Winslet, Laura Linney e Kevin Spacey.
L’intervista completa è, come tante cose che si pubblicano su internet, non più disponibile, ma mi riprometto di recuperarla per altre vie. Parlammo per oltre un’ora, un’intervista singola, come si poteva fare una volta quando non erano tutti critici e intervistatori. Il mio me dell’epoca, che aveva iniziato da pochi mesi a fare questo lavoro, era molto felice. Alan Parker, per chi è nato all’alba degli anni Settanta, è stato un cineasta importante, sapere della sua morte, arrivata a settantasei anni dopo una lunga malattia, rattrista particolarmente.
Londinese di Islington, dopo la guerra quartiere proletario e non per benestanti molto alternativi com’è oggi, Parker si fece le ossa nel mondo pubblicitario negli anni Sessanta.
“Lavoravo con Ridley Scott, che aveva la sua agenzia con il fratello Tony. Con noi c’erano anche Hugh Hudson e Adrian Lyne, veniamo tutti da lì. Era un bel lavoro, avevamo grande libertà creativa e imparammo tutti come fare il cinema”.
Soprattutto acquisirono tutti un gran gusto estetico, cifra stilistica hanno condiviso nel corso delle loro carriere. Alan Parker compreso, che già dal suo primo film per il grande schermo, guarda caso un musical, aveva capito l’importanza della luce, dei colori, delle atmosfere e soprattutto del montaggio, elemento che più di molti altri lo ha reso celebre. Merito di Gerry Hambling, montatore con cui lavorò per tutta la sua carriera, e che ha contribuito in maniera determinante alla realizzazione di sequenze che dovrebbero essere studiate fotogramma per fotogramma da chiunque voglia fare cinema.
Alan Parker era particolarmente bravo nelle scene finali
Due esempi lampanti sono quelle di Piccoli Gangster e Saranno famosi.
Piccoli Gangster, o meglio Bugsy Malone, è un’opera geniale, un gangster movie degli anni Trenta interpretato solo da bambini. L’arma letale è la machine-bignè, gli scontri corpo a corpo sostituiti da battaglie di torte alla panna. Un inno alla non violenza e un chiarissimo messaggio di quanto sia importante dare alle future generazioni un mondo migliore, benedetto da una partitura eccezionale di Paul Williams, che nello stesso anno scrisse anche quella di A Star is Born e due anni prima aveva firmato un capolavoro immortale come Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma.
Mettendo questa scena a confronto con la chiusura di Saranno famosi, balza agli occhi quanto in tre anni si sia evoluto lo stile di Parker. Nel mezzo ci fu Fuga di mezzanotte, film tra i suoi più immeritatamente celebrati, tratto da un libro autobiografico sensazionalistico amplificato da una sceneggiatura evidentemente “chimica” di Oliver Stone, ma che lo aiutò a cementare il rapporto con Michael Seresin, il suo fidato direttore della fotografia, maestro della luce e grande amante delle focali lunghe. Il saggio di fine anno degli studenti della School of Performance Arts è un compendio dell’importanza del rapporto che si dovrebbe sempre instaurare tra i “tre registi” di un film. L’uso dei campi, delle focali, delle luci, unito al lavoro straordinario che fa Hambling sulla scrittura della scena con la musica a supporto, portano al risultato che possiamo vedere.