Marina Abramovich è con ogni probabilità la più grande performance artist vivente. Avere la fortuna di assistere a una sua qualunque performance dal vivo non è equiparabile ad altre esperienze. Unire lei, l’eclettico estro attoriale di Willem Dafoe e il magnetico talento vocale di Anthony Hegarty sotto la direzine artistica di Robert Wilson è già una collisione di visioni artistiche straordianaria. E a chi minimamente si occupa di arte contemporanea non c’è bisogno di spiegarlo. Tutti gli altri non capirebbero. Non vogliamo essere snob, semplicemente è inutile anche solo tentare di definire queste persone, bisogna vederle con i propri occhi.
Giada Colagrande non ha dovuto far altro che realizzare un backstage, anche piuttosto ordinario, dello spettacolo biografico Life and Death of Marina Abramovich. Un ensemble performativo che racchiude nel cast moltissime sensibilità diverse, e il profondo contrasto tra l’artificio teatrale iperstudiato e ipercoreografato di Robert Wilson e la performance estrema e indagatrice del proprio reale di Marina Abramovich. La regia è al limite dell’elementare, come pure la struttura del documentario. C’è così poco di artistico da parte della Colagrande che potrebbe tranquillamente trattarsi di un contenuto speciale di un DVD sullo spettacolo teatrale di Wilson, commissionato dalla produzione. Eppure non si può evitare di rimanere profondamente scossi, affascinati, rapiti dalla potenza di ciò che scorre sullo schermo. La Abramovich ancora una volta messa a nudo, questa volta non per gli occhi degli spettatori, ma per quello implacabile e ben più profondo della macchina da presa, in una indagine che non coinvolge più solo lei stessa, bensì ciascun partecipante allo show.
Dafoe è a dir poco magistrale, lasciato libero di esprimersi ma non di gigioneggiare, con quella sua fisicità un po’ tozza eppure dinoccolata, le fattezze da Joker accentuate dal trucco e dalla tintura per capelli. E Hegarty a fare da colonna sonora, grido che ora è disperato ora è infantile, profondità abissale, musica essenziale, a interpretare Marina stessa come forse solo lui può fare, oggi.
Si esce sconvolti – non quanto dopo aver visto la Abramovich dal vivo, ma poco ci manca – dalla spiazzante sincerità, dal dialogo che questa donna ha con se stessa attraverso l’arte, il contatto con la sofferenza, la non rimozione del proprio passato e il vissuto, come eterno presente, dentro di noi.
“Se sei una performer, non puoi amare il teatro, deve essere il tuo primo nemico”. Il teatro è artificio; Marina Abramovic, anche quando interpreta sua madre, è impietosamente se stessa.