Poniamoci una domanda: è più volgare essere un parrucchiere israeliano che soddisfa sessualmente le sue ottuagenarie clienti o essere il presidente di una potenza mondiale che bombarda donne, vecchi e bambini? La risposta per quanto mi riguarda è scontata, per questo sono convinto che Adam Sandler possa essere considerato uno dei più grandi intellettuali americani.
E non è una provocazione, magnifica giustificazione ogni volta che ci si accorge d’aver detto un’immane cazzata.
Il comico di Brooklin, infatti, arrivato a quarantadue anni e dopo una quantità impressionante di successi messi in fila negli ultimi dieci, ha dimostrato di non essere semplicemente un affabulatore di masse grazie alla sua comicità greve, fisica e grottesca. Sandler è un autore a tutto tondo, capace di affrontare con incredibile lucidità temi profondi e importanti con la sua poetica sopra le righe, lasciando lo spettatore divertito e inconsciamente arricchito.
Basti pensare alla complessità di un film come Click, esemplare opera capriana, un moderno La vita è meravigliosa in cui Sandler analizza in maniera spietata la corsa al successo che ha caratterizzato la società americana del regno di Bush II, relegando a una mera convenzione uno dei valori fondanti degli Stati Uniti d’America, ovvero la famiglia, istituzione che dovrebbe essere messa dinanzi a tutto.
Una poetica molto simile a quella dei fratelli Farrelly
Come loro Sandler ha una predilezione per la non convenzionalità del nucleo familiare, come ha dimostrato in molte occasioni. Da Billy Madison, praticamente il suo film d’esordio come protagonista, a Waterboy, fino ai più recenti The Wedding Singer, 50 volte il primo bacio, Spanglish e Zohan.
Un concetto che riporta anche nel lavoro, dato che Adam ama lavorare sempre con le stesse persone, dall’inseparabile Rob Schneider agli amici John Turturro e John McEnroe, fino ai registi Dennis Dugan, Frank Coraci e Peter Segal, che in tre hanno girato quasi tutta la filmografia dell’attore.
Ma sarebbe un terribile errore ridurre la carriera di Adam Sandler a quella di un comico, ruolo oltretutto difficilissimo come la storia del cinema insegna. Proprio la sua straordinaria sensibilità nei confronti dell’animo hanno convinto registi come Paul Thomas Anderson e James Brooks a offrire all’attore di Brooklin la possibilità di dimostrare il proprio valore. E se in Spanglish l’eccellente interpretazioni di Sandler non si riesce ad apprezzare in pieno a causa dell’eccessiva verbosità del film, in Ubriaco d’amore dimostra di essere il più degno erede di Jerry Lewis.
Adam Sandler è un artista
Uno dei più interessanti del panorama cinematografico americano degli ultimi vent’anni. Il suo progressivo passaggio a temi sempre più profondi e importanti denota la sua progressiva crescita professionale. Il desiderio di recuperare stilemi classici del cinema americano, come in Click e in Vi dichiaro marito e marito, e di affrontare temi come il matrimonio gay, la crisi tra Israele e Palestina (argomento a lui particolarmente caro, essendo di origine ebraica), l’integrazione razziale o l’11 settembre, come avvenuto nel sottovalutato Reign Over Me, ne fanno una delle voci più libere del panorama culturale contemporaneo.
Zohan ne è la dimostrazione
Sandler sintetizza la questione palestinese in pochissime battute distribuite con sapienza nel corso del film, intervallate da acconciature anni Ottanta (decennio feticcio per lui), coiti geriatrici e continui riferimenti a dimensioni e prestazioni dell’apparato genitale. Eppure, alla fine della visione, la convinzione è quella d’aver visto un film serissimo le cui linee principali di sceneggiatura sono pace, amore e libertà.
C’è da chiedersi cosa potrebbe fare Sandler se decidesse di passare alla regia, sebbene lui giuri e spergiuri che non ha nessuna intenzione di farlo. La sensazione è che potremmo trovarci di fronte a un meraviglioso cineasta iconoclasta capace di opere ai limiti della sovversione.
E di sovversivi nel cinema, e non solo, se ne sente sempre il bisogno.