Alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2007, La ragazza del lago fu la grande sorpresa del festival. Presentato alla Settimana della Critica, l’opera prima di Andrea Molaioli vinse un paio di premi collaterali e fu elogiato in maniera quasi unanime dalla critica. Uscito poco dopo, questo noir etereo e dalle atmosfere soffuse conquistò anche il pubblico e le giurie dei David di Donatello e dei Nastri d’Argento, facendo incetta di meritati premi.
Quattro anni dopo Molaioli prova a bissare quel successo con un film che già in fase di preparazione ha creato molte attese, visto il delicato argomento che tocca, ovvero il drammatico crollo dell’impero Tanzi e della Parmalat. Il regista, che ha alle spalle una lunga gavetta da aiuto con autori come Nanni Moretti e Paolo Sorrentino, non fa nomi di persone o aziende che si possono trovare nelle pagine di cronaca finanziaria, ma li crea drammaturgicamente, ricostruendo una delle tante pagine infauste della nostra storia recente. Abbiamo parlato con Andrea Molaioli del processo creativo che ha portato al film che Bim Distribuzione porterà nelle sale italiane a partire dal 4 marzo.
Andrea Molaioli, ovviamente cominciamo dalla genesi di questa progetto…
Il gioiellino nasce da un’interesse che si è alimentato in coincidenza ai prodromi della crisi finanziaria globale. Ho iniziato a documentarmi sulle vicende riguardanti i crack di alcune grandi società internazionali, rapportandole alla crisi globale, nata da questioni assolutamente virtuali, ma con conseguenze reali gravissime. La storia della Parmalat era una sorta di avanguardia negativa di tutto questo, con l’aggiunta delle connotazioni folkloristiche di una multinazionale che si è sviluppata in una piccola provincia italiana. Sono andato quindi alla ricerca di altre vicende simili per trovare dei punti di contatto proprio nella gestione aziendale. Tutte queste situazioni sembravano ricondurre a una filosofia che era un credo assoluto e chi la criticava veniva accusato di non accettare la modernità. Il crollo della Parmalat mi ha colpito perché è in qualche modo paradigmatico.
La provincia, strana e misteriosa, come ne La ragazza del lago.
Già, ma qui viene vista in maniera diversa dal film precedente, anche perché lì c’era un protagonista assoluto, mentre qui la storia è più corale. Lo sguardo è sempre dentro l’azienda, per analizzare i personaggi al comando e le loro relazioni, un ulteriore microcosmo dentro un piccolo agglomerato sociale. Probabile che ci siano delle analogie, ma i due racconti differiscono nello sviluppo narrativo.
La continuità intanto porta il nome di Toni Servillo.
Se hai avuto l’occasione di avere Servillo in una precedente occasione, che è stata oltretutto così positiva, non vedo per quale ragione non continuare. C’era il desiderio di entrambi di lavorare di nuovo assieme, se c’era l’opportunità, e l’abbiamo trovata subito.
E fa ancora una volta un normale contabile.
Normale contabile che è in realtà un braccio operativo dell’azienda, mentre Remo Girone, il padrone, è la facciata che cura i rapporti con le istituzioni. Servillo è quello che opera nella stanzetta illuminata dalla lampada da tavolo e che ha che fare con le carte.
Raccontare una storia del genere significa assumersi delle responsabilità.
Mi sono posto molte domande. La scelta narrativa fa si che ho cercato di mettere da parte tutto quello che la truffa ho provocato, per dare una visione intimista della storia. I risultati li conosciamo, io invece volevo capire l’ambiente, il clima, l’atmosfera che aveva prodotto quel disastro. Mi è sembrato interessante raccontarlo uscendo dal meccanismo classico del film d’inchiesta, anche perché nella mia testa non c’era la figura di un indagatore, e provando anche ad allontanarmi dal meccanismo dei cattivi tout court, cercando d’immaginare come vivere quelle situazioni. Anche attraverso un percorso di documentazione, ovviamente.
Proprio a questo proposito, ha fatto solo un lavoro di documentazione o anche un lavoro documentario?
Prima di tutto è stato un lavoro lungo, perché non ero sicuro che sarei stato in grado di portare a casa il film. Sia io che le persone che lo hanno scritto con me, Ludovica Rampoldi e Gabriele Romagnoli, avevamo bisogno di capire se tutta quella materia eravamo in grado di tradurla in maniera drammaturgica. In buona parte ci siamo basati su letture di libri e documenti, oltre al cercare di incontrare persone che dal di dentro e dal di fuori si fossero occupate di quelle cose prima che deflagrassero e mentre accadevano. Non volevamo rimettere in scena il processo, ma eravamo alla ricerca di una testimonianza emotiva. Tutti gli incontri che abbiamo fatto, comunque, hanno portato qualcosa.
Come La ragazza sul lago, Il gioiellino è un film di genere, entrambi hanno atmosfere e ritmi narrativi particolari.
Non so se Il gioiellino sia un film di genere. La ragazza del lago volevo lo fosse, ma alla fine è diventato qualcos’altro, probabilmente per una questione di sensibilità personale, senza un reale desiderio concettuale di cambiamento del risultato finale. C’è stato un processo analogo anche su questo film, l’elemento sul quale ho cercato di porre il fuoco sono i personaggi. Per me Il gioiellino racconta storie di uomini e donne, nonostante la vicenda principale sia enorme. La mia speranza è che fra qualche tempo si possa vedere questo film prescindendo da ciò che è stata la realtà.
Il gioiellino è prodotto ancora dalla Indigo Film e anche il cast tecnico è in gran parte quello del suo esordio. Immagino siano stati due elementi importanti.
Fondamentali. Una condizione indispensabile per lavorare serenamente, dal mio punto di vista, è sapere di poter lavorare poi con dei produttori che condividono anche le fasi creative passo dopo passo. Avere poi collaboratori a tutti i livelli che possono portare il loro talento è una cosa di cui non posso fare a meno, perché il regista è responsabile di tutte le scelte che si fanno, ma un film è sempre un lavoro collettivo.
Il gioiellino esce il 4 marzo, ad aprile uscirà Habemus Papam di Moretti e a maggio il film americano di Paolo Sorrentino, due registi per cui lei ha fatto l’aiuto. Come si sente oggi?
Mi fa impressione, è una cosa non facilmente comprensibile, ma è accaduta e nutro la speranza che questa vicinanza sia meritata, con ambizione da una parte e stimolo per il futuro dall’altra. Se qualcuno avrà la bonta di collocarmi un giorno artisticamente non troppo lontano da loro sarà una gran bella soddisfazione.