Verona, aprile 2004. Schermi d’amore, festival del cinema sentimentale e melò, ha avuto quest’anno una sezione molto particolare. Vittorio Storaro, infatti, ha deciso di far partire proprio dalla città di Romeo e Giulietta la sua mostra “Scrivere con la luce”, una vera e propria biografia per immagini, quelle create da un artista che nel corso della sua quarantennale carriera ha lavorato con autori come Francis Ford Coppola, Bernardo Bertolucci, Warren Beatty, Carlos Saura e Alfonso Arau.
Oltre ciò, il Maestro ha anche presentato l’anteprima del Director’s Cut di Un sogno lungo un giorno di Coppola che presto sarà disponibile in Italia in un’edizione DVD a doppio disco (anche se c’è sempre la speranza di poterlo vedere prima al cinema).
Tre premi oscar, per Apocalypse Now nel 1979, Reds nel 1981 e L’ultimo imperatore nel 1988, oltre a una serie di capolavori in cui la sua capacità di giocare con la luce e l’ombra è stata fondamentale per creare immagini che sono rimaste nella storia del cinema.
Abbiamo incontrato Vittorio Storaro proprio avvolto dalle sue creazioni, una location che non poteva essere migliore e con lui abbiamo ripercorso le tappe fondamentali della sua carriera, ed è lui stesso a raccontarle. Partendo dalla fine…
Alfonso Arau, Zapata e il Messico
Una delle ultime fatiche di Vittorio Storaro è stata Zapata, film sulla figura del grande rivoluzionario messicano a lungo accarezzato da Alfonso Arau, con cui il cinematographer italiano aveva già lavorato in Ho solo ammazzato mia moglie.
‘C’è un vecchio detto: l’usignolo canta sempre la stessa canzone. E forse allo stesso modo i creativi hanno sempre le stesse intuizioni. Questo perché la maggior parte degli esseri umani cerca attraverso la propria opera di capire se stesso. Se guardo la mia filmografia mi accorgo di avere lavorato quasi sempre con dei predestinati, allevati da maestri e destinati a diventarlo loro stessi. Molti film che ho fatto hanno qualcosa che li collega e li fa somigliare tra loro. Questo perché la vera storia di tutti questi film insieme è il viaggio all’interno dell’uomo e le parti che lo compongono: maschile e femminile, conscio e inconscio, rapporti complementari e opposti che sono stati sviscerati in molti dei film a cui ho lavorato.
Il Predestinato è presente in molti progetti, da Il piccolo buddha a Dune a Zapata. C’è l’essere umano, la storia che è di tutti noi, di colui che si ritrova sulle spalle un destino che vorrebbe rifiutare, ma alla fine scopre che ognuno di noi può essere un piccolo leader quando è pronto a portare avanti le proprie idee. Si scopre di essere dei capi quando queste idee vengono seguite e la maturità che deriva dall’educazione fa esplodere la nostra creatività, portando avanti l’essenza dell’umano e coinvolgendo tutti coloro che in qualche modo si avvicinano a queste esplosioni creative. Questi personaggi, arrivati a un certo punto della loro vita, capiscono che devono essere sacrificati per diventare un simbolo, scavalcando in questo modo la menzogna e passando il testimone a qualcun altro, come succedeva per esempio per il personaggio di Kurtz in Apocalypse Now.
Tutti questi elementi li ho ritrovati nel copione di Zapata, che ho letto sette anni fa e che in un primo momento non volevo fare, perché mi sembrava molto buono il film precedente di Elia Kazan sull’argomento. Ma leggendo lo script capisco che Arau vuole raccontare Zapata attraverso gli occhi dei messicani, identificandolo nella reincarnazione di Guatemo, ultimo imperatore degli aztechi. Questo collegamento mi è sembrato così bello che mi sono sentito io stesso predestinato a fare questo film.
Purtroppo inizialmente il progetto fu bloccato, avevo già fatto dei sopralluoghi, per altre due o tre volte il film non è partito. Un anno fa Alfonso Arau mi ha chiamato, dicendomi che tutto era finalmente pronto, molto ridimensionato, con un terzo dei finanziamenti rispetto al capitale iniziale, un film messicano girato in spagnolo con attori messicani. L’essenza del racconto però restava la stessa e allora ho deciso di partire per il Messico.
Credo che Zapata sia un film molto particolare, anche perché alla fine abbiamo deciso di girarlo tutto in un unico ambiente, facendone così un’opera surreale e visionaria, senza una struttura epica tradizionale, naturalmente, ma non per questo meno grande. Per me, poi, è un passo avanti su quel discorso sulla visione che porto avanti da tutta la mia carriera e che ho ulteriormente sviluppato nella collaborazione con Carlos Saura.
Woody Allen: gli intrecci e il gentile diniego
Uno dei pochi grandi maestri con cui Vittorio Storaro non ha mai lavorato è stato Woody Allen, uno che di artisti della luce ne capisce non poco, avendo lavorato con gente del calibro di Gordon Willis, Carlo Di Palma , Sven Nykvist, tanto per citarne alcuni.
Storaro e Allen si sono sfiorati nel corso degli anni, la prima volta per New York Stories, in cui l’episodio di Francis Coppola, La vita senza Zoe, era stato illuminato dal genio dell’italiano, mentre Allen aveva diretto l’esilarante segmento Edipo relitto.
Poi fu proprio Arau a metterli sullo stesso set in Ho solo ammazzato mia moglie. Ma è mai successo che il regista newyorkese abbia cercato Vittorio l’italiano per uno dei suoi progetti?
‘Woody Allen mi aveva cercato per il suo ultimo film, ma non ho potuto accettare perché stavo già lavorando al prequel di The Exorcist. Sono stato contattato in maniera molto riservata, come è nel suo stile. Ero in Messico, mi era stato inviato il copione, ma sapendo in anticipo che non avrei potuto lavorare con lui, ho rimesso tutto in una busta senza leggerlo e gli ho risposto scrivendogli che ero già impegnato e che mi dispiaceva molto. Spero non se la sia presa, perché più di una volta ho dovuto declinare le offerte di un regista per impegni già presi, mi è capitato con Spielberg, Jewison, Antonioni e purtroppo in questi casi è difficile che capitino seconde occasioni.’
Exorcist: the Beginning. Un film per tre da scrivere con la luce
È molto probabile che con il tempo venga considerato un film maledetto, Per ora è un film che ancora non ha visto la luce, o meglio, non come doveva essere. Il fantomatico prequel de L’esorcista ha già visto, per ragioni più o meno tragiche, tre registi prenderlo in mano. L’unico che ha seguito tutto il progetto sin dall’inizio è stato proprio Vittorio Storaro.
‘Il progetto iniziale mi fu offerto da John Frankenheimer, me ne parlò nello stesso ristorante di Londra dove vent’anni prima mi aveva parlato di un altro film che rifiutai, perché stavo girando Reds. Anche in quel momento ero in realtà occupato, ma John mi disse che voleva aspettarmi per The Exorcist, perché era convinto che la visione che voleva fosse vicina alle mie corde.
Ho amato molto il libro di William Peter Blatty e mi piacque il film di William Friedkin, i due sequel non credo di averli neanche visti. Incontrai una volta Blatty a Los Angeles proprio a proposito di uno dei due, ma ero impegnato con Bertolucci e declinai l’offerta.
La sceneggiatura di Caleb Carr di Exorcist: the Prequel mi sembrava davvero molto buona, tutta basata sul confronto eterno tra il Bene e il Male, così accettai, e andai subito a fare dei sopralluoghi con lo scenografo e il produttore. John non venne, perché doveva curarsi un problema alla spalla.
Tornai a Los Angeles e gli spiegai la mia idea visiva di cui rimase entusiasta, in quell’occasione lo accompagnai alla prima del suo film Path of War, una miniserie per l’HBO con Michael Gambon che vestiva i panni di Lyndon Johnson, un magnifico affresco della politica americana nel periodo del Vietnam. Quindi ripartii per il Marocco per degli altri sopralluoghi, mentre John restò negli Stati Uniti per concludere le sue terapie.
Mentre eravamo in Nord Africa, però, ci arrivò la notizia che l’operazione a cui si era sottoposto John avrebbe richiesto un lungo tempo di recupero e a quel punto si iniziò a pensare alla maniera in cui proseguire il progetto. La produzione, nonostante i costi elevati, con un gesto molto bello decise di spostare il film a Los Anegeles come location e di sei mesi come periodo produttivo, per permettere a Frankenheimer di rimettersi e poter riprendere in mano il progetto. John purtroppo non ce l’ha fatta, è morto poco dopo, e a quel punto è stato chiamato Paul Schrader a sostituirlo alla regia.
Paul ha evidentemente visto nella sceneggiatura qualcosa di diverso, di più personale, ha fatto un rimpasto del cast piuttosto importante, sostituito Liam Neeson che era il protagonista con Stellan Skarsgaard, un attore comunque eccellente. Paul e io ci siamo conosciuti in Marocco ed è andato tutto bene sul set, il film è stato completato regolarmente, ma quando la Morgan Creek, la casa di produzione, lo ha visto, non ha ritenuto che fosse adatto al pubblico che loro avevano individuato in sede di marketing. Purtroppo ormai questo genere di film è praticamente pacchettizzato e viene prodotto per determinate fasce d’età e di istruzione. La visione di Schrader probabilmente non era quella che cercavano.
C’è stato uno scontro tra Paul e la produzione e forse sarebbe bastato solo aggiustare un po’ il tiro, ma il faccia a faccia è stato molto duro, tanto che alla fine Schrader è stato allontanato e il film è stato riscritto e rigirato per il 95% con Renny Harlin al suo posto. Sono due opere completamente diverse, ma mi manca, devo dire, il progetto iniziale di Frankenheimer, a cui tenevo moltissimo. Per quanto riguarda invece il film di Paul, francamente spero che ci sia modo di vederlo almeno nella versione DVD. Paul e io ci teniamo costantemente in contatto, perché entrambi ci stiamo adoperando affinché questo possa accadere.’
L’azione combinata di questi due grandi del cinema ha dato per fortuna i frutti sperati, dato che proprio durante l’ultimo festival di Cannes è arrivato l’annuncio dell’uscita Direct on Video di Exorcist: the Beginning diretto da Paul Schrader.
Vittorio Storaro e Bernardo Bertolucci
La vita artistica di Vittorio Storaro si è intrecciata con quella di alcuni dei più grandi registi degli ultimi trent’anni. Uno di questi è stato senza alcun dubbio Bernardo Bertolucci, con cui Storaro a girato ben otto film: Il conformista, La strategia del ragno, Ultimo tango a Parigi, Novecento, La luna, L’ultimo imperatore, Il tè nel deserto, Il piccolo Buddha.
‘Bernardo e io ci siamo incontrati quando eravamo ancora giovani e, nel bene e nel male, abbiamo constatato che c’era un forte parallelismo tra il suo modo d’esprimersi e nel raccontare le storie e il mio modo di utilizzare la luce e l’ombra. In questo modo abbiamo scoperto insieme delle cose illuminando una parte del nostro inconscio, lui scrivendo con la macchina da presa, io con la luce.
Il nostro percorso ha lasciato una traccia indelebile nella storia del cinema e devo dire che mi dispiace che si sia interrotto. Non so perché, non ne conosco la ragione, a un certo punto Bernardo ha deciso di continuare il suo viaggio senza di me. Ci parliamo, andiamo a pranzo insieme e ci vediamo spesso, ma rispetto la sua decisione, qualunque sia la ragione.’
Warren Beatty: la visione dell’attore
Warren Beatty è stata una delle stelle di prima grandezza del cinema americano degli anni Settanta e proprio sul finire di quel decennio incredibile per il cinema americano decise di passare dietro la macchina da presa, coadiuvato da Buck Henry, con Il paradiso può attendere, remake di un classico americano come L’inafferabile Mr. Jordan. Ma l’enorme ego di Beatty non poteva sopportare l’idea di dover lavorare insieme a qualcun altro, per questo tre anni dopo la sedia del regista rimase solo una sul set di Reds, ambiziosa storia della rivoluzione d’ottobre vista attraverso gli occhi del giornalista John Reed, unico americano sepolto al Cremlino. Fu proprio per quel film che iniziò la collaborazione di Vittorio Storaro con l’attore e regista.
‘Il nostro incontro si trasformò ben presto in uno scontro, inizialmente non capivo assolutamente la sua visione, anche perché ero sempre stato abituato a un rapporto da co-autore che vedeva le cose dall’esterno, mentre Warren è un attore che ha sempre visto le cose dal punto di vista del set.
Con lui ci sono stati dei contrasti che mi hanno portato quasi a lasciare il set di Reds. Ma a un certo punto sono riuscito a entrare nel suo mondo, perché compresi che per la prima volta dovevo smettere di parlare e mettermi ad ascoltare, con grande umiltà, capendo il cinema anche dal punto di vista del’attore che era anche regista, produttore e sceneggiatore. Da quel momento in poi le cose andarono benissimo e la nostra collaborazione ha dato dei frutti bellissimi.’
Dopo Reds, Beatty e Storaro si sono ritrovati altre tre volte, una diretti da Elaine May per Ishtar e poi nelle due regie di Beatty, il visionario e fumettistico Dick Tracy e Bulworth, uno dei migliori film americani degli anni Novanta, in cui Storaro si è cimentato in una cinematografia sfaccettata e di grande inventiva.
I sogni da Kurtz a Tucker
Il rapporto tra Vittorio Storaro e Francis Ford Coppola è, se possibile, ancora più stretto di quello con Bernardo Bertolucci. Questo perché è impossibile non restare legati per la vita dopo un’esperienza ai limiti del trascendentale come la lavorazione di Apocalypse Now. Ma in realtà tutti e tre i film che Storaro ha girato con Coppola hanno qualcosa di davvero speciale e in qualche modo quello che meglio sintetizza il loro rapporto professionale è quello meno famoso: Tucker.
‘Tucker è stato pensato in corsa. Non da Francis, anzi, quello era uno dei sogni della sua vita, lui avrebbe voluto girarlo subito dopo Apocalypse Now, ma all’epoca decise di voler fare Un sogno lungo un giorno, un film che lo mise in ginocchio dal punto di vista economico e che lo costrinse per molti anni a pagare i debiti che aveva contratto. Ma Francis non si tirò indietro, Un sogno lungo un giorno è ancora oggi il film che ama di più e lui non ha mai smesso di inseguire i suoi sogni. Fu proprio quando iniziammo a lavorare su One from the Hearth che mi parlò per la prima volta di Tucker, quest’uomo che sognava di produrre l’automobile per eccellenza, ricca di innovazioni tecnologiche e allo stesso tempo abbordabile non solo dai più ricchi. Tucker e le sue idee furono una delle ossessioni della famiglia Coppola e Un sogno lungo un giorno è l’equivalente della Tucker per Francis: poter lavorare su una nuova forma cinematografica che potesse rivoluzionare in futuro il modo di fare cinema. Francis è sempre stato un precursore.
Anni dopo, dopo aver girato due grandi successi come I ragazzi della 56ma strada e Rusty il selvaggio, Coppola riuscì a girare il suo film su Tucker e per me fu un momento molto importante. Quando uscii dalle varie scuole di cinema, mi accorsi che mi mancava una certa formazione culturale per poter capire il concetto di un film. Allora studiai a lungo e in particolare dopo Apocalypse Now iniziai a studiare i colori e le sue simbologie, il che mi ha portato al particolare utilizzo dei colori ne La luna, Un sogno lungo un giorno e L’ultimo imperatore.
Mentre preparavo Tucker mi trovavo a Venezia per una breve vacanza con mia moglie e andai a vedere una mostra sul futurismo. Fu in quel momento che capii che Tucker era un film futurista, così decisi di dividere la sua vita nei quattro elementi primari, acqua, terra, aria e fuoco, e di associarli ai quattro colori fondamentali. Tucker è stato un film sperimentale per me, e proprio dopo quel film decisi di prendermi un altro periodo di pausa, perché avevo capito che c’erano degli altri mondi della visione da esplorare.’
Prima di congedarci e lasciare il Maestro Vittorio Storaro alla visita guidata della sua mostra, gli chiediamo se il suo stile non sia stato negli ultimi anni influenzato anche dall’avvento del DVD e della fruizione casalinga sempre più diffusa. La risposta è stata ineccepibile.
‘Non ho cambiato niente per il DVD, mi baso sempre e soltanto sullo schermo, seppur consapevole che ci sono dei sistemi di fruizione che stanno cambiando velocemente e che si avvicinano sempre di più alla purezza della pellicola.
Per me il cinema è quello che sta sul grande schermo e nel frattempo la tecnologia arriverà a poter riprodurre anche in un televisore quello che solo lo schermo può dare come purezza dell’immagine. Allora, perché doversi adattare? Aspettiamo che sia il progresso a farlo.’
Sapere che c’è ancora qualcuno che considera il futuro adattabile alle esigenze della creazione artistica non può che mettere di buon umore.