Se c’è un regista italiano davvero internazionale, è Gabriele Salvatores. Non perché vinse un Oscar: non è uno di quelli che semplicemente vengono venduti all’estero e che però mantengono la riconoscibilità del classico cinema italiano, anche di un certo cliché che lo accompagna. Salvatores ha un respiro cosmopolita, anzi, sarebbe meglio dire cosmogonico. E anche portare sullo schermo cinematografico il primo supereroe italiano, con un progetto di crossmedialità mai visto prima, non è stata un’operazione banale. Laddove Lo chiamavano Jeeg Robot resta il gioiello che è, ma è anche circoscritto a una localissima realtà nostrana, Il ragazzo invisibile è un racconto che trapassa i confini nel far propria la lezione che fu del cantore John Hughes: accostarsi all’adolescenza con uno sguardo adulto che vuole comprendere e non giudicare dall’alto della propria esperienza, con la voglia di farsi stupire e di imparare, anziché d’impartire.
E pensare che questo sequel non era nemmeno certo che si realizzasse, nonostante la scena dopo i titoli del primo film, come ormai la nuova tradizione dei cinecomics vuole. Abbiamo incontrato Gabriele, sorridente, elegante, con la gentilezza che sempre lo contraddistingue, insieme al protagonista Ludovico Girardello e Victor Perez, supervisore ai bellissimi effetti visivi.
Infine avete deciso di realizzare il sequel de Il ragazzo Invisibile. Raccontateci com’è andata.
Gabriele Salvatores: Qualcuno, dopo il primo film, parlava di “improbabile sequel”. Invece il nostro Michele Silenzi, il giovane ragazzo invisibile, si è conquistato un suo pubblico, anche grazie ai passaggi televisivi. Si è fatto una strada anche in Europa, ha vinto l’Oscar Europeo come miglior film per ragazzi, e questo ci ha fatto capire che il pubblico poteva volere un sequel. Poi noi ci eravamo molto affezionati al nostro piccolo supereroe e volevamo sapere cosa gli succedeva qualche anno dopo.
In questo secondo capitolo ci sono nuovi temi da affrontare, soprattutto il concetto di legame di sangue, che non sempre è garanzia di affetto.
GS: Ecco, “legami di sangue” doveva inizialmente essere il sottotitolo. Poi abbiamo pensato che forse era un po’ troppo violento, mentre “seconda generazione” lascia un po’ più di speranza in quelli che verranno, come diceva Brecht. Come nelle tragedie greche, nei miti antichi, in qualche modo bisogna metaforicamente eliminare i genitori per crescere, e anche affrontare il proprio lato oscuro. Ecco perché il film è un pochino più scuro e più dark. Poi quella che vive il nostro protagonista è un’età dark. I sedici e diciassette anni sono un’età che mi ricordo bene e non vorrei tornarci.
I riferimenti fumettistici sono tantissimi, c’è un rapporto con la morte, soprattutto con la morte violenta, che attualmente non si vede tanto nei film per teenager…
GS: È vero, e detto così fa anche un po’ paura. Abbiamo provato a trattare questo elemento in maniera non banale. Il genere supereroistico ti permette di affrontare argomenti drammatici, ma in modo un po’ meno realistico. Ecco, io credo che il realismo andrebbe un po’ ridimensionato, dopo la scoperta dell’inconscio da parte di Freud, dopo la realtà virtuale e tutto quello che c’è e che ormai sappiamo esserci, bisogna pensare che, come diceva Gramsci, non basta la ragione a spiegare la realtà. Quindi abbiamo provato a mettere le mani con questo approccio nell’aspetto più scuro e misterioso di tutto questo.
La differenza degli “speciali” e l’emarginazione che ne consegue, porta loro a incattivirsi. È corretto vedere un qualche riferimento all’attualità?
GS: Non voglio fare riferimenti azzardati, ma è chiaro che questo sia uno dei temi importanti del film. Prima di stendere la sceneggiatura, abbiamo fatto un concorso con AGI scuola. Abbiamo chiesto ai ragazzi di scrivere un tema che immaginasse il sequel de Il ragazzo invisibile, e quindi anche i cattivi da affrontare. Le due paure più forti e diffuse fra i ragazzi che sono emerse sono il terrorismo e la paura di non essere figlio della propria madre. È incredibile perché per esempio la mia generazione questa paura non ce l’aveva. Invece oggi è diffusa, specialmente tra i più giovani. Abbiamo chiesto anche alle madri, che ci hanno raccontato di quante volte i figli chiedono di vedere le foto della mamma incinta o con il figlio piccolo in braccio… Sono le nuove paure che dobbiamo affrontare. Come pure dobbiamo dire ai ragazzi che queste cose tremende che succedono, come gli attentati terroristici, non cadono dall’alto all’improvviso, come un masso che ti cade in testa, ma sono generati da qualcosa, anche dall’emarginazione, dal fatto che esista troppa differenza tra i ricchi e i poveri. È banale dirlo così, ma è di fatto semplice: troppa differenza.
Anche rispetto al primo film, sin dai titoli di testa, c’è una maggior aderenza al genere supereroistico. Che tipo di ricerca hai fatto per approfondire questo stile?
GS: Nel primo la storia era lineare e semplicissima: questo ragazzo scopre di avere un potere e deve capire come usarlo, imparare a gestirlo e tutto sommato se la cava anche bene. Qui siamo andati a mettere le mani nel lato oscuro e soprattutto siamo andati a potenziare la componente dei supereroi: ce ne sono molti di più e ci sono molti più effetti visivi. Noi in Italia possiamo farle queste cose, ne siamo capaci. Dobbiamo mantenere la nostra anima, che è diversa da quella del cinema hollywoodiano, e però possiamo giocare con questi miti. Per prepararmi mi sono rivisto anche tutti i film di supereroi che non avevo mai visto. Non sono un cultore di cinecomics, mentre lo sono di fumetti. I tre sceneggiatori sono molto legati al cinema di supereroi. Prima di iniziare a girare questo film me li sono rivisti tutti e alcuni li ho trovati molto belli, altri molto meno.
Emarginazione, visibilità. Ludovico, la visibilità è ciò che cercano oggi tutti i ragazzi della tua età. In questo film c’è proprio una rottura totale, visto che Michele, non solo è invisibile, ma vuole esserlo. Decide di rimanere invisibile non dicendo a nessuno di essere quello che è.
Ludovico Girardello: In questi anni quasi ogni ragazzo ha cercato di essere più visibile nella sua compagnia o in generale verso gli altri. Nella mia generazione, che è nata ai tempi di YouTube e dei fashion blogger, un po’ tutti hanno cercato di far parte di qualche categoria del web. O comunque hanno iniziato a recitare o hanno voluto far parte del mondo dello spettacolo. La maggior parte di noi ci prova, e lo trovo anche un po’ brutto da vedere. E secondo me la scelta di Michele nel film è più che giusta. È una cosa difficile e complicata spiegare di avere un superpotere.
In questo film il tuo personaggio ha anche tanti problemi esistenziali da affrontare.
LG: Con Michele mi somiglio per quanto riguarda una certa rabbia interiore, ma non fino in fondo. Lui è proprio nella depressione più totale; io sono abbastanza felice, ma ho i miei spigoli.
Hai detto che secondo te il primo capitolo era come un prologo e che questo è il vero film…
LG: In tutte le saghe, anche in Harry Potter o Il Signore degli Anelli, il primo capitolo per me è il prologo: si presentano i personaggi, si spiega chi sono e la trama è molto semplice. Così pure per Il ragazzo invisibile. Questo secondo, secondo me, ha un po’ più di “ciccia”, c’è più storia, è più pieno. Incontriamo nuovi personaggi e c’è molta più cattiveria dietro. Poi c’è la parte dark, sia per l’età del protagonista che per la presenza di altri nemici nella storia.
Naturalmente gli effetti visivi in un film di supereroi sono fondamentali, ma non si pensa a Salvatores come regista di film con effetti speciali…
GS: Victor Perez è anche regista. Ha girato un bellissimo corto con un piano sequenza eccezionale. Parlare con un tecnico (anche se in realtà dovremmo chiamarli artisti visivi), che però ha anche una visione registica, è molto diverso e stimolante.
Victor, in che misura avete lavorato insieme sugli effetti visivi?
Victor Perez: Per me la parte più interessante è non aver mai voluto realizzare, da parte di Gabriele, inquadrature che fossero solo belle dal punto di vista estetico, ma anche funzionali per raccontare meglio alcuni aspetti della storia. Abbiamo dovuto lavorare anche sulle abitudini e le percezioni degli spettatori, che per comprendere certe cose se ne aspettano altre. Abbiamo voluto dare allo spettatore quello che si aspetta, ma non nel modo in cui se lo aspetta. Lo sviluppo è stato molto “a braccio”, abbiamo dovuto annusarci, capirci, trovare il nostro equilibrio. Ho una certa tendenza nel fare cinema molto diversa da quella di Gabriele. Ma è questo che ci fa ricchi: sommare le nostre differenze e le nostre idee e trovare così qualcosa di nuovo. Abbiamo messo insieme moltissima tecnologia, ma non dimentichiamoci mai che i computer non fanno mai niente che gli artisti non gli hanno detto di fare. Tutto è stato fatto in Italia, a Roma. Abbiamo trovato un equilibrio a tre: fra me, Gabriele e Frame by Frame, la compagnia che ha prodotto gli effetti. E abbiamo reso visibile qualcosa di astratto e… invisibile.