La zona d’interesse è un’opera d’arte di deflagrante potenza, un Guernica cinematografico che racconta l’Olocausto con un punto di vista assolutamente inedito, quello di chi l’ha perpetrato considerandolo normale, un lavoro, ordini da eseguire, mentre le preoccupazioni vere erano altre: la moglie, la famiglia, la carriera. Banalità, ma talvolta l’orrore può avere quella forma.
Film straordinario, diretto da Jonathan Glazer che con una lucidità impressionante fa della quotidianità di questo burocrate, affiancato da una consorte che non vuole perdere i suoi privilegi, un reality show del male puro.
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La zona d’interesse, tratto dal romanzo omonimo di Martin Amis, è un film che tutti dovrebbero vedere, per la sua altissima qualità cinematografica, una messa in scena che sfiora vette di genio puro, e naturalmente per l’argomento che tocca, che declinato in maniera diversa è contemporaneo e lo sarà purtroppo sempre. Ciò che sta avvenendo a Gaza in questi mesi è la riprova che il male si perpetra e si rigenera, ti entra dentro e viene ereditato, accumulandosi e amplificandosi. Chi fu sterminato oggi stermina, è un ciclo che non si riesce a spezzare.
Il protagonista di La zona d’interesse è Rudolf Höß
L’ufficiale nazista, un burocrate per lo più, che progetto e diresse Auschwitz-Birkenau come fosse una normale fabbrica con una forza lavoro che era al tempo stesso la materia prima dello stabilimento. Höß e la sua famiglia vivevano in una villa adiacente il campo di concentramento, ignorando la struttura, ma sapendo perfettamente a cosa servisse e cosa vi accadesse. Höß fu poi processato a Norimberga e condannato a morte dall’alto tribunale polacco per i crimini di guerra.
La signora Höß è interpretata da Sandra Huller, che soprattutto grazie ad Anatomia di una caduta è la regina della stagione. Ma bisogna anche rendere il giusto merito a Christian Friedel, davvero eccezionale nel ruolo del carnefice, ragioniere e geometra. Lo abbiamo incontrato a Londra, durante il BFI London Film Festival.
Com’è lavorare con Jonathan Glazer?
È stata un’esperienza intensa, è stimolante osservarlo come artista. Credo che le nostre conversazioni insieme, Sandra, Jonathan e io, siano state la cosa più importante per creare il personaggio e immergermi in questo mondo e in questo metodo. È stato fantastico vedere un artista che ha nutrito ogni nervo del suo corpo di questo progetto, per lui anche emotivamente molto importante. Sono orgoglioso di farne parte.
La fiducia è importante in un film come La zona d’interesse, avete lavorato su due personaggi molto complicati, marito e moglie in una famiglia apparentemente normale. C’è stata qualche remora morale?
Dal mio punto di vista o voluto dare un volto umano al Male, perché credo che la cosa più importante di questo progetto sia che si tratta sì di un film sull’Olocausto e in un contesto storico, ma anche che parla dell’oscurità che c’è dentro ognuno di noi.
All’inizio vediamo una famiglia, appunto, normale, al lago, su un prato, un’immagine meravigliosa.
Vediamo un padre che vuole essere un padre, ma che poi va a lavorare e fa cose terribili, perché a quell’epoca, in quel luogo, c’erano esseri umani che facevano cose terribili ad altri esseri umani.
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Creare questo carattere, connesso inevitabilmente con me, è stato uno shock. Quando ho visto il film per la prima volta ho capito: “Oh mio Dio, questo potrei essere io”. Ma questa è stata la ricerca per trovare la banalità, o la normalità, del Male. Lo vediamo, è un marito noioso, un ottimo burocrate, ma è ordinario, non è una persona nata malvagia. E per fortuna Sandra e io abbiamo avuto tutto il tempo del mondo per cercare questa banalità.
I due protagonisti si incattiviscono progressivamente, ma semplicemente a causa della loro relazione.
L’ho vissuta diversamente, per me tutto il processo, comprese le riprese, sono state una ricerca di situazioni quotidiane. Abbiamo avuto il lusso di poter girare solo una o due scene al giorno, inizialmente preparate e poi ripetute con infinite variazioni. La festa di compleanno, o una delle varie cene insieme, a volte improvvisavamo, oppure semplicemente aspettavamo di vedere cosa ci venisse il quel momento, oppure rifacevamo la scena più volte senza mai fermarci per trovare un dialogo.
Non c’era preparazione, non c’erano prove, avevamo molte conversazioni prima delle riprese, avevamo la libertà di cercare quello che i personaggi sentivamo dovessero fare. Nel caso dei mio personaggio è stato ancora più interessante, perché la sua condizione a un certo punto cambiata, è costretto a lasciare la sua casa, si sente l’ultima ruota del carro e sa di non essere più giovanissimo.
Avere tutti questi sottotesti è stata una sfida, perché non potevo comunque esprimerli, l’unica cosa che doveva trasparire era la sua malvagità banale. Al processo di Norimberga Rudolf Höß dichiarò di non sentirsi colpevole per ciò che aveva fatto. Era il suo lavoro e desiderava essere il migliore nel suo lavoro. L’equilibrio tra cosa mostrare e cosa no è stata la sfida.
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Per certi versi è qualcosa di simile a The Act of Killing, il film Joshua Oppenheimer, in cui c’è uno dei colpevoli che descrive in modo accurato ciò che ha fatto ed il suo stesso corpo a dire la verità. Mi sono ispirato a questo per l’ultima scena del film, quando vomita, una battaglia del corpo contro la mente. Jonathan ha detto una cosa meravigliosa a questo proposito: “Forse il corpo vuole rifiutare l’uomo”.
Un film come La zona d’interessa ti cambia, come persona e come attore.
Penso che ogni lavoro che ho fatto sia stato fantastico. Come attore lavori su argomenti diversi quindi e ogni ruolo è una nuova ispirazione. Professionalmente la cosa che certamente mi ha dato una nuova prospettiva è il metodo di Jonathan, tutte queste camere che girano contemporaneamente da diverse angolazioni ci hanno permesso di sperimentare qualcosa di completamente nuovo, un lavoro quasi teatrale per certi versi, senza avere mai un’interruzione, immergendoci nei personaggi, trovandoli dentro di noi.
La Storia, da cui sembriamo non imparare mai, si sta ripetendo, anche se in modo decisamente diverso. Stiamo vivendo tempi molto bui. Quanto è importante, oggi, questo film?
Penso che chiunque dovrebbe visitare il museo di Auschwitz. Quando l’ho visitato per la prima volta e ho visto la dimensione di quanto accaduto comunque non sono riuscito a capacitarmene, ma so che è successo ed è una cosa impossibile da ignorare, e non sono in grado di comprendere che qualcuno ci riesca. Le persone che venivano portate nelle camere a gas potevano vedere la casa della famiglia Höß.
Sono andato nella loro vera casa e dalla stanza dei bambini si vedevano le camere a gas. Sono cose che non si possono ignorare. Eppure, sono stato per tre mesi a poche centinaia di metri da quella casa e sono rimasto scioccato dal fatto che a volte me ne dimentavo. Perché purtroppo è vero, è facile ignorare e dimenticare.