Se c’è una cosa che il cinema francese è veramente bravo a fare, è valorizzare ciò che ha. Gli attori, prima di tutto, e non da ieri, al contrario è una tradizione che viene da lontano. Più o meno dai tempi di Molière, secolo diciassettesimo, quando chi portava sulle assi di un palcoscenico le sue opere veniva visto come una star, salvo poi non essere seppellito in terra consacrata. Un po’ come accadeva non molto tempo prima nell’elisabettiana Inghilterra del Grande Bardo, William Shakespeare, e come sarebbe successo non molto tempo dopo nell’Italia del Goldoni.
Andando avanti i nostri cugini galletti hanno idolatrato Alfred Jarry, Louis Jouvet, Michel Simon, e in tempi più recenti Michel Serrault, Pierre Richard, Catherine Deneuve, Isabelle Adjani, e la lista potrebbe continuare a lungo.
Non è un caso, quindi, che Molière in bicicletta nasca dall’amore che un grande divo, ovviamente intellettuale, francese ha da trent’anni nei confronti della sua piéce più importante e complessa, Il misantropo. Philippe Le Guay, regista già del fortunato Le donne del 6° piano, non si è fatto pregare troppo dall’amico Fabrice Luchini e fatti armi e bagagli si sono trasferiti sull’isola della Bretagna dove vive lo stesso attore per girare questa storia di amicizia e di teatro.
Lambert Wilson è un attore non più giovanissimo, ma di grande successo televisivo, che vorrebbe portare in teatro una nuova versione del Misantropo. Per renderla memorabile, cerca di convincere il suo mentore a recitare nuovamente e abbandonare il suo buen retiro. Provando insieme la commedia, si accorgeranno di quanto il teatro e la vita molto spesso si confondano.
Molière in bicicletta è una divertente e intelligente commedia che riflette su temi universali, proprio come ci hanno insegnato i grandi commediografi e drammaturgi dei tempi che furono. Romeo e Giulietta funziona anche oggi, come Il misantropo, perché di amicizia, amore, vita, morte, verità, giustizia e ipocrisia si parlerà sempre. Le Guay, grazie a due interpreti in stato di grazia, decide di farlo con leggerezza e una spolverata di malinconia, lasciando la maggior parte del lavoro a Luchini e Wilson, accompagnando morbidamente i loro movimenti e le loro parole, costruendo loro una struttura cinematografica che omaggia apertamente il Joseph Mankiewicz di Sleuth e in cui Maya Sansa cerca di fare del suo meglio, equilibrando con la sua femminea determinazione un racconto che sarebbe stato altrimenti intellettualmente testosteronico.
Invece, sono cento minuti, più o meno, piacevoli e anche estremamente istruttivi, perché di misantropi o presunti tali è pieno il mondo, ma quelli veri sono pochi, e sono gli unici con cui si fanno discorsi intelligenti e civili.
Diffidate delle imitazioni.
Alessandro De Simone