Bong Joon-ho è un cineasta assai curioso. Grande amante dei generi, fautore di un cinema che cerca continuamente di unire il pop all’autorialità, coraggioso anche negli errori, e non è cosa da poco. Soprattutto, ha una visione molto lucida della contemporaneità ed è consapevole delle responsabilità politiche di un autore. Tutti elementi che ha riversato nel film che lo ha portato alla Palma d’oro a Cannes, Parasite.
I generi. Si perde quasi il conto di quanti ne innesta in questa parabola sociale su una banda di poveri e geniali truffatori che si insinua nella casa e nelle vite di una ricca famiglia di Seoul. Commedia, dramma, horror, ma anche fantascienza, un classico come L’invasione degli ultracorpi, e un Alien, con le creature che esplorano e si nascondono nei più reconditi luoghi della casa del ricco, più moderna di un’astronave del futuro passato al cinema.
Parasite è un lavoro di sintesi per Bong
C’è la lotta di classe, come in The Host e in Snowpiercer, e di conseguenza una potente componente geopolitica, con la ferita di una nazione spezzata qui più che mai esplicitata. C’è il mostro, anzi, più di uno, l’assassino, il sopravvissuto, tutti segnati da molti peccati. Ma probabilmente colpevoli di niente, se non di voler sopravvivere.
Parasite è un film spiazzante, talmente ricco di contenuti che rende difficile la visione retrospettiva. Si rischia di perdersi nell’inondazione di eventi che si susseguono con scientifica precisione, scanditi da un ritmo cinematografico molto jazz, e da un’inesorabile discesa negli inferi di una nazione, di una società, di una Storia che inevitabilmente chiederà il conto.
Se si dovesse scegliere una chiave di lettura primaria per Parasite, non sarebbe mai la stessa.
Metafora del rapporto tra nord e sud, pamphlet anticapitalista, e no, non è la stessa cosa, ma anche profonda riflessione sull’istituzione della famiglia e la sua evoluzione nichilista nella contemporaneità. Scavando, in ogni caso, si arriva sempre allo stesso punto. Per scoprire quale sia, bisogna vedere il film, e poi rivederlo, facendo un percorso diverso, e vederlo ancora, a riprova che interattività vuol dire scrivere bene una storia.
Bong predilige questa volta uno stile più asciutto rispetto ai suoi precedenti film.
Geometrico, per entrare in sintonia con l’architettura del film, in tutti i sensi, con un magnifico utilizzo della prospettiva e della profondità di campo, per dare il giusto spazio ai corpi e agli ultracorpi. Luci, colori e atmosfere si trasformano progressivamente, il patinato da Architectural Digest si trasforma in cupe atmosfere horror e inquietanti saturazioni lynchiane.
E poi, c’è un cast eccezionale, attori di livello sublime, capitanati dal feticcio Song Kang-ho, al quarto film con Bong e si vede, per come trasmette con chirurgica perfezione, da navigato capocomico, il volere e il pensiero del suo creatore.
A molto più di un che di Pirandelliano Parasite, dai personaggi in cerca d’autore alle variazioni Mattia Pascal. E si potrebbe trovare ancora tanto da dire su uno dei migliori film degli ultimi anni, si potrebbe intavolare la lunga discussione per decidere se poterlo un giorno definire capolavoro. Sarebbe tempo ben speso, scoprire se tanta bellezza resterà intatta, o se è stato solo un fatuo innamoramento.
Ma Parasite sembra decisamente un colpo di fulmine.