Un uomo, una donna, l’amore, il dubbio, il desiderio, la fine. Semplice, lineare, meraviglioso e terribile. Basta questo per riassumere To the Wonder, seconda parte delle riflessioni sulla vita e tutto ciò che la compone di quello strano cineasta che porta il nome di Terrence Malick.
Strano e stranamente prolifico, come spesso accade a chi si accorge che il suo tempo sta per finire e sente il bisogno di dire al mondo ancora tante cose, chiudendo un discorso cominciato tanti anni fa con La rabbia giovane e I giorni del cielo.
To the Wonder parte da lì.
Riflessione adulta sull’amore, quello che allora era folle e assassino, ma anche ingenuo e sincero, e che oggi è aleatorio e crudele. Dopo The Tree of Life, in cui raccontava la famiglia come origine della vita, Malick si dedica ai misteri, contrapponendo al rapporto che spinge due esseri umani a condividere le proprie esistenze i dubbi di un sacerdote che mette in discussione la sua fede. Un parallelo che funziona e amplifica, rafforzandoli, entrambi i temi, trattati con lacerante realismo emotivo e portati sullo schermo con una forma cinematografica essenziale, originaria, pura, in cui le parole fanno solo da contrappunto e potrebbero anche non esserci, supportate da una potenza visiva straordinaria e un montaggio che condensa in pochi tagli tutte le emozioni di una storia d’amore.
Il cinema di Malick è ormai una forma ibrida, tra pittura e videoarte, in cui gli attori sono forme ideali, come la meravigliosa Olga Kurylenko, eterea fata ferita, ulteriore elemento della complessa spiritualità del cinema di questo misantropo cineasta che si diverte a dividere le platee con opere spiazzanti. Ed è giusto che sia così, perché la vita è troppo bella per essere ridotta a una noiosa e accomodante quotidianità. Un concetto che è racchiuso nel titolo stesso del film: verso la meraviglia, o meglio ancora, verso il sublime.
A qualunque costo e nonostante tutto.