“Nella sua essenza, l’anima americana è dura, solitaria, stoica e assassina. Finora non si è mai ammorbidita”.
La dichiarazione d’intenti Scott Cooper la fa dall’inizio di Ostili, riportando le parole di H.D. Lawrence. Siamo di fronte all’analisi della coscienza collettiva, come mai abbastanza si è fatta da parte del cinema statunitense e dalla cultura a stelle e strisce tutta. L’eccidio dei popoli autoctoni nelle Americhe è stato il più vasto e feroce della storia, eppure quasi mai se ne riportano i numeri reali, o si assume come esempio della prevaricazione dell’uomo su un altro uomo.
Il western, genere principe del cinema che racchiude al suo interno la vita stessa, ha più volte raccontato i conflitti. Per lo più dipingendo gli “indiani” come i cattivi. Ostili, film d’apertura della dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, riprende il genere, lo attualizza confermandone le basi solide, lo conferma come unico mezzo per capire dove siamo oggi. Guardarsi indietro, ripercorrere la Frontiera, analizzare la storia e le proprie radici. Il sangue che ha nutrito la terra che oggi chiamiamo America.
Inizia con una famiglia trucidata, bambino in fasce compreso, e una madre che continua a cullarlo, impazzita, ripetendo a se stessa che dorme. Inizia con una partenza, un odioso compito assegnato, perché è sempre nella dimensione del viaggio che si trovano le risposte. Dopo tante guerre in cui ha visto morire i suoi compagni nei modi più vari e fantasiosamente atroci, il Capitano Joseph J. Blocker deve scortare a casa un capo Cheyenne che sta morendo di cancro, che si è reso responsabile di tante morti. L’odiato Capo Yellow Hawk e la sua famiglia devono arrivare sani e salvi nelle loro terre, per la nuova politica di dialogo instaurata dal governo federale. E come primo incontro, il gruppo di nativi e di soldati federali si ritrova proprio Rosalie Quaid, con il suo bimbo morto in braccio, e la “raccoglie”.
Un racconto senza sconti, un’escalation di violenze, follia, assurdità e odio, dettato dalle differenze che sono soltanto apparenti. Tutti si sono macchiati di crimini indicibili, Blocker per primo, che non ha esitato a massacrare donne e bambini, che non si è risparmiato nelle torture, che non ha provato pietà e forse non la prova nemmeno ora. Un Christian Bale che non era così intenso da molto tempo porta sullo schermo questo Capitano che non può trovare la pace perché non può sfuggire a se stesso, denso com’è di odio e sempre sul punto di esplodere come una pentola a pressione. Le controparti sono tante, non solo Yellow Hawk. I commilitoni senza una direzione, senza un indirizzo o una morale, specchi in frantumi nei quali Blocker si rivede come il puzzle da ricomporre che è, rotti, ma impietosi, proprio nel restituirgli la complessità di una verità che non è solo una.
Wes Studi è intensissimo, la Dignità di un popolo rinchiusa in una sola persona, memorabile come lo fu ne L’ultimo dei Mohicani. Ma in tutta questa follia, il dialogo, la speranza, arriva dalle donne, dal volto distrutto di Rosamund Pike, angelo nell’inferno, che accetta per prima il gesto di una donna Cheyenne, che per prima si fa scudo per difendere i bambini nativi, che è l’umanità perduta, ma che può ripartire.
Tutto intorno una natura lussuriosa, che sta a guardare indifferente. Una terra immensa, selvaggia, che continua a essere vergognosamente bella e nuda anche di fronte agli orrori più inenerrabili. L’America è nata prima delle guerre, ma è stata firmata con il sangue. E i giudizi ormai non sono quelli degli altri. Tanti occhi, moltiplicati in quello specchio rotto: noi che per primi non sopportiamo il giudizio di quello sguardo ostile. Il nostro.