Se c’è un aspetto dal quale possiamo comprendere sia scaturita l’altalenante storia d’amore tra Jean Grey e Wolverine è il tormento insito nei loro personaggi. Quella volontà di essere nel giusto e operare nel bene messa a dura prova dalla rabbia repressa insita nella loro stessa terribile natura. Ed è nella repressione, rabbiosa e bestiale, che il loro amore si è perfezionato sul grande schermo, in quel momento inesorabilmente tragico di mortale unione, metafora non troppo velata di eros e tanathos che riscatta l’intero X-Men: Conflitto finale. Da quel momento in poi l’eroe-antieroe mutante è solo. Non c’è stato più nessuno a chiamarlo Logan, per tutti è stato Wolverine, l’immortale.
È da questo tormento, messo a tacere per troppo tempo, che muove i passi Logan
Il definitivo capitolo – forse – sulla storia del mutante più iconico. Il plot prende spunto da Vecchio Logan di Mark Millar, ma se ne discosta quasi subito. In questo futuro distopico non sono i supervillain della Marvel ad aver preso il sopravvento, ma solo una società sbiadita, assente, in sottofondo disturbante nella mente di un uomo malato e disilluso che si stordisce con l’alcol tutto il giorno. I mutanti non sono più un problema, ora che sono in numero talmente irrisorio da non rappresentare nemmeno una minoranza. Il Professor X vive da povero recluso con Caliban, preda di un’epilessia che combinata alla sua mente rischia di generare catastrofi. Wolverine è un mito lontano, roba da ragazzini che ancora conservano i fumetti di un’epoca che fu. Logan è malato, per colpa di un veleno che dimostra che persino lui può invecchiare, arreso a un presente senza scopo né direzione.
James Mangold, regista di Ragazze interrotte e Walk the Line – Quando l’amore brucia l’anima, sa bene come trattare i personaggi tormentati. Lui che con Hugh Jackman lavora dai tempi del godibile Kate & Leopold, riprende in mano il personaggio che ama e finalmente può farlo come più gli si confà. Perché nel precedente, dimenticabile capitolo, il titolo era Wolverine, qui è Logan. Lì era il supereroe, il mito, quella macchietta gialla sulle pagine porose di un fumetto che poteva solo compiere gesta perfette e sconfiggere il male. Qui è Logan, l’uomo.
In un’apoteosi sanguinolenta di scontri corpo a corpo o con armi di ogni tipo (da fuoco, da taglio, frecce e chi più ne ha più ne metta) assistiamo a una rinascita nel sangue di Wolverine, insieme a una nuova generazione di mutanti creati in laboratorio come lui. E di una legacy, quella della esiziale Laura, esordio folgorante della piccola Dafne Keen. Inizio e fine, passaggio di testimoni, generazioni. Ciò che più somiglia a una famiglia, per uno a cui la famiglia è negata. Perché se mutanti come Logan e Laura si avvicinano a un focolare, ciò che ne può conseguire è solo distruzione, nel dolore consapevole di poter vivere per un giorno ciò che non si potrà possedere mai. L’illusione del calore familiare, quella fortuna immensa che voi che avete una famiglia nemmeno capite appieno di avere, talmente la normalità ha assuefatto il vivere. Quel bene che chi porta in sé male e sofferenza, sangue marcio, si nega e insieme anela.
Logan è un film di intimità e di azione insieme.
Un lavoro complesso da vedere e rivedere, che germoglia nello spettatore e poi cresce dentro come una pianta infestante. Bello e terribile, come l’unico modo che ha Logan di amare.