“Sta piuttosto a noi il votarci qui al gran compito che ci è di fronte: che da questi morti onorati ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero, della devozione, l’ultima piena misura; che noi qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano; che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo di popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra”.
Nella prima scena di Lincoln il Discorso di Gettysburg c’è già stato. Il Presidente sta già combattendo la sua guerra (non è un caso che il film inizi su un campo di battaglia) per l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti. Non è un biopic quello a cui stiamo per assistere, non ne ha la struttura. È piuttosto il racconto di come il Tredicesimo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America fu approvato con una maggioranza di soli due voti, esattamente centocinquanta anni fa.
Lincoln, quello con cui finì la schiavitù
Steven Spielberg continua a raccontare la sua America, quella del Sogno, quella che ama e che rispetta, quella per cui ancora sogna che la democrazia trionfi sull’ingiustizia. E questa volta sceglie uno dei suoi presidenti più amati, Abraham Lincoln, quello che per molti altro non è se non una grossa statua che guarda una grossa fontana.
Lincoln l’avvocato, quello che parlava per sciarade, Lincoln che fu persino contestato, di cui fu più volte (e ancora oggi accade) sottolineata la contraddizione nell’esprimersi, quello a cui si punta il dito per la Guerra di Secessione. Lincoln, quello a cui si deve una delle più grandi rivoluzioni della storia dell’umanità dai tempi dell’invenzione della ruota. Liberò i neri dalla schiavitù, fu ucciso per questo, e scusate se è poco.
Spielberg si affida alle incredibili capacità di Daniel Day-Lewis per dargli volto, corpo e voce, sceglie di non realizzare spettacolari scene da effetti speciali, né di esagerare con il make-up prostatico. La misura, la compostezza, la dignità rendono questo racconto devastante quanto e più lo fu Schindler’s List. Spielberg non ha bisogno di mostrare i segni delle frustate per far capire al suo pubblico quanto un popolo abbia sofferto sotto la schiavitù. Al contrario, mostra la frustrazione di un bianco, investito di immensi poteri, che pure non può decidere da solo, e deve sottomettersi al volere di altri politici, ha le mani legate di fronte a una palese ingiustizia, come tutti noi.
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In questo e in molto altro, Lincoln è un film incredibilmente attuale, anche nel mostrare come, ieri e oggi, i politici in un’aula preferiscano insultarsi tra loro che risolvere davvero le cose, rimandando l’approvazione di leggi fondamentali, mentre la gente comune cerca intanto di sopravvivere nel mondo crudele. È altresì un film corale, e per questo si distacca dal biopic in senso classico, magnificamente recitato da innumerevoli attori.
Tommy Lee Jones, Sally Field, il sempre eccezionale David Strathairn, John Hawkes, e via via gli altri, uno a uno, fino ad arrivare a Joseph Gordon-Levitt, un talento indubbio che siamo contenti di vedere sempre più spesso, e che qui duetta con il titanico Daniel senza fare una piega. Day-Lewis non ha la quantità di scene che per contratto si riserva a un protagonista, cede spesso il posto ai suoi degni colleghi, eppure riempie lo schermo e il tempo filmico nella sua totalità. In aria da terza statuetta, l’attore si conferma uno dei più grandi tesori che il cinema abbia da offrire.
Lincoln non è un biopic
Ma Spielberg, si sa, non sa mai stare fermo. Per lui la regia batte il tempo del rock, e sebbene qui l’impianto sia indubbiamente classico, fatto di magistrali campi e controcampi, di avvicinamenti ai volti sui pregnanti dialoghi mirabilmente scritti, la macchina da presa compie continui movimenti, si agita come gli animi delle persone che sta raccontando, punteggia gli eventi con l’irrequietezza di chi, in tempo di guerra, attende di aver notizie di un caro dal fronte.
Lincoln è un film di guerra perché racconta di una battaglia. È un film sociale perché racconta di una lotta per l’emancipazione. È un film rivoluzionario perché lascia limpidamente intuire l’impatto che ciò ebbe nel mondo intero, anche a livello economico. Ed è un potente confronto tra un padre e suo figlio, tra un uomo autoritario che in casa non può che capitolare e la sua famiglia, che pure lo sostiene. La storia di uno che voleva la libertà dei neri pur non sapendo nulla di loro: non ne conosceva nessuno. E lo spettatore per primo, in questo senso, è spinto a porsi domande su come, per primo, metterebbe in pratica i principi che dice di sostenere.
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Lincoln avviò una rivoluzione, non la concluse. Perché quelle vere non durano il tempo di una generazione, bensì continuano e mai si arrestano. Il film di Spielberg lo afferma con forza. La sua potenza è devastante, come lo fu l’immagine di un letto crivellato di proiettili dai nazisti nel succitato Schindler’s List. Qui come lì, Spielberg racconta la sofferenza di un popolo. Solo che ora è abbastanza maturo da saperlo fare senza esplodere un solo colpo.