Si parla sempre di Federico Fellini e del vuoto che ha lasciato la sua figura nel cinema italiano e mondiale. Ma ogni tanto sarebbe opportuno ricordare che anche altri hanno fatto grande la nostra industria di celluloide nel mondo. Ettore Scola è uno di questi altri, regista e sceneggiatore che in pochissimi anni ha regalato al mondo opere eccezionali come Brutti, sporchi e cattivi, Una giornata particolare e soprattutto C’eravamo tanto amati, il film che meglio ha raccontato e rappresentato l’Italia del Dopoguerra.
Anche Scola e Fellini s’erano tanto amati, come loro stessi hanno amato il cinema e prima ancora il Marc’Aurelio, giornale satirico dove entrambi mossero i primi passi, ad alcuni anni di distanza l’uno dall’altro, e dove conobbero altri straordinari personaggi che sono poi entrati di diritto nella storia culturale del nostro paese.
Che strano chiamarsi Federico! è la storia di quest’amicizia, ma solo in piccola parte.
Come spesso accade a chi è stato abituato a guardare la vita attraverso il mirino di una cinepresa, Scola finisce col lasciarsi prendere giustamente la mano, offrendo uno spaccato dell’Italia che fu e di quella che è fu, del cinema di una volta e del cinema che non c’è. Un testamento più storico che artistico, e non dei due straordinari cineasti che rimembrano (perché in fondo Fellini è ancora ben vivo) i bei tempi andati, ma di un paese intero, la nostra povera Italia, dove una volta bastava avere talento per bussare a una porta e farsi aprire.
L’essenza del film e della meravigliosa imprescindibile inutilità del cinema la troviamo nelle parole del madonnaro Sergio Rubini, attore che quando vuole ha pochi eguali: il cinema è la settima arte e il talento c’è o non c’è.
Stop. Stampala.