Certamente è questa la domanda che si fanno gli e soprattutto le aspiranti influencer. Il mio profilo migliore. Quello da cui fare la smorfietta ammiccante che tanto piace pubblico social che non vede l’ora di sapere quanto inutile sia la sua vita rispetto a quella di una ventenne scollata che scarta merci per migliaia di euro, pagata per farlo di fronte a tutti.
Il fenomeno influencer è meraviglioso, molto simile a un rapporto sadomaso tra una professionista del Red Light District e un maestro delle elementari cinquantenne che vive ancora con la madre. L’Unboxing dell’ultimo gioco per Playstation ha la stessa ritualità di uno spogliarello, il cui finale non può che essere l’eiaculazione precoce.
Come tutti i fenomeni superflui, prima o poi passerà, per fare spazio a qualcosa di ancor più vacuo, estremo e commercialmente spendibile. In generale, quello che doveva essere un veicolo per la condivisione della conoscenza, è oggi il maggiore strumento di sperequazione, controllo e disinformazione del pianeta. Oltre che una perfetta macchina per il sesso facile, che sia a pagamento, quasi gratis (leggi Tinder e piattaforme similari), solitario o virtuale.
I giovani nascono ormai con il DNA sufficientemente modificato e gli anticorpi necessari a sopportare le conseguenze di qualsivoglia bad behaviour on line, più difficile è per chi si approccia a pratiche simili in tempi più maturi. Già oltre i quarant’anni servirebbe un manuale d’istruzioni, per come comportarsi e per capire le mosse dell’antagonista. Sarebbe utile, per non diventare un tossico ed esserlo per il prossimo.
Questo è Il mio profilo migliore
Claire, donna di mezza età attraente e interessante, divorziata con figli, è gelosa del suo toy boy. Decide allora di crearsi un’identità fittizia on line, per poter interagire con lui e scoprire se la tradisce. Finirà per farlo lei, con il migliore amico di lui, spacciandosi per una giovane e disinibita fanciulla, ma con l’esperienza di una donna matura, intelligente e di cultura, oltre che con un gran bisogno di liberarsi dei freni inibitori. Ma il gioco diventa molto presto pericoloso.
Vestito come un thriller psicologico, ma con vari cambi d’abito affatto scontati, Il mio profilo migliore dovrebbe essere inserito in una nuova forma cinematografica, il genere App, ovvero tutto ciò che mette a confronto i non nativi digitali con le forme della comunicazione contemporanea.
Più che la storia in sé, comunque ben strutturata e raccontata con ritmo, fluidità e scrittura dal regista Safy Nebbou, quello che rende davvero interessante il film è la riflessione antropologica. La moderna società telematica è stratificata per comprensione e di conseguenza potenzialità di sfruttamento del mezzo. E sebbene un’adeguata preparazione culturale possa riempire parte del gap, non riuscirà mai a colmarlo del tutto nei confronti di chi questo meta idioma lo ha imparato insieme, e molto meglio oltretutto, alla lingua madre.
Il mio profilo migliore racconta l’elegia di una generazione
E di una forma narrativa, quella in cui l’autore decide le mosse e gli intrecci dei suoi personaggi. Oggi non è più così. Scomodando, abbastanza inutilmente, Pirandello, chi si aggira per una storia non è in cerca d’autore, ma per definizione narratore di sé stesso, padrone del suo destino, del suo inizio, evoluzione e finale. Le storie così si moltiplicano. Ma quelle da raccontare sono sempre meno.
Quella di Claire, interpretata, per dovere di cronaca e non solo, da una come sempre magnifica Juliette Binoche, merita di essere raccontata. Per ricordarci quelle che ci hanno insegnato a vivere.