Dopo averci calato nel meraviglioso mondo di favola di Amelie, Jean-Pierre Jeunet e Audrey Tautou tornano a raccontare una storia insieme. Intenso e avvincente, con la struttura di un giallo mescolata a una delicata storia d’amore, Una lunga domenica di passioni è una narrazione in bilico, tra il drammatico e l’ironico, tipica di Jeunet, supportata dai bellissimi effetti speciali e la fotografia digitale della Duboi.
Ambientato durante la Prima Guerra Mondiale, Una lunga domenica di passioni racconta la storia di una giovane donna che non si rassegna all’idea di aver perso il suo fidanzato in guerra. Mathilde non crede che la condanna per automutilazione (un fenomeno diffuso durante la Grande Guerra per ottenere il congedo dalle armi) lo abbia portato alla morte, quindi inizia una disperata e metodica ricerca, con un piglio da vera investigatrice.
Un film dalle tante suggestioni, di cui abbiamo parlato proprio con Jean-Pierre Jeunet.
Jean-Pierre Jeunet, come mai ha deciso di raccontare una storia in costume? La ritiene ancora attuale?
A muovermi non è stata tanto l’idea di girare un film in costume, quanto il bisogno di parlare di quel preciso periodo storico, quello della Prima Guerra Mondiale. E poi anche la Parigi degli anni Venti, secondo me, era molto interessante dal punto di vista narrativo. Inoltre il personaggio di Mathilde è attuale. Mi ci identifico, perché ho sempre voluto fare del cinema, ma non sembrava possibile data la mia condizione sociale. Come Mathilde ho sempre avuto grande tenacia e ostinazione.
Cosa pensava di fare prima di finire nel mondo del cinema?
Da ragazzo ero operaio per la compagnia dei telefoni, quindi era un mondo molto diverso. Ma il cinema mi ha sempre affascinato, già da prima di vederlo davvero. Quando avevo nove anni mi divertivo con quella che potrebbe essere una tecnica di montaggio: ritagliavo immagini, ne cambiavo l’ordine, mi inventavo dei dialoghi, ecc.
L’intreccio giallo del film è molto efficace. Lo ritroviamo anche nei suoi film precedenti. Come è venuto fuori in fase di sceneggiatura? Si è ispirato al Polar francese?
Nel romanzo (il film è tratto dall’omonimo romanzo di Sébastien Japrisot, edito in Italia da Rizzoli, ndr) c’erano già la suspence e l’intreccio giallo. Ma è diverso, succede tutto attraverso i rapporti epistolari e non ci sono gli omicidi. Nel film ho fatto una sorta di adattamento, perché Mathilde fa una vera e propria inchiesta. In questo senso mi sono ispirato al cinema di Roman Polanski.
Ha scelto un’altra volta Audrey Tautou come protagonista. Come mai?
L’ho scelta perché secondo me lei era Mathilde. Audrey ed io siamo molto simili, pensiamo allo stesso modo. Abbiamo fatto delle letture mirate, poi abbiamo letto il testo insieme e lei è riuscita a trovarne i difetti, quello che poteva non funzionare nel personaggio nella trasposizione. Ho fatto letture con tutti gli attori. Audrey poi si è preparata nei movimenti, quelli giusti per suonare la tuba, e un medico le ha insegnato a zoppicare correttamente, come farebbe un poliomelitico.
Come mai la scelta insolita di un’attrice come Jodie Foster?
Jodie era a Parigi per doppiare Panic Room, parla perfettamente il francese senza alcun accento ed è stata lei a contattarmi per chiedermi di partecipare al film. In effetti era un po’ tardi e le ho detto che potevo darle un piccolo ruolo, un cameo da guest star. Pensavo alla parte della donna tedesca nel caffè. Lei ha letto la sceneggiatura e mi ha detto che il ruolo era troppo piccolo e che avrebbe potuto fare di più. Io ovviamente sono stato felice di offrirgliene uno più ampio.
Al film è stata negata la nazionalità francese, però questo non ha impedito che potesse essere candidato ai Cesàr…
La legge francese non permette che un film sia prodotto con dei capitali extraeuropei. Questo è un film con una produzione complicata, ma la distribuzione è Warner. I concorrenti francesi, che poi sono solo tre o quattro, hanno fatto di tutto per cercare di eliminare questo film dalla competizione, cercando un appiglio. Personalmente ho speso molto e ho lavorato tanto a questo film.
Potevo andare a girarlo altrove, dove sarebbe costato meno, invece ho preferito far lavorare una troupe francese e abbiamo salvato anche gli studi Duboi, che altrimenti avrebbero chiuso. Adesso continuano ad esistere anche grazie a noi. Per di più tutti i politici, di destra e sinistra, e anche il Presidente della Repubblica, sono d’accordo che questo debba essere considerato un film francese. Quindi è stato modificato un po’ lo statuto dei Cesàr. È ovvio che dal punto di vista artistico questo sia un film francese, ma dal punto di vista economico non vogliono mollare la presa e lo considerano un film straniero.
Come in Amelie, la Duboi ha fatto un gran lavoro. Avete inventato qualcosa di nuovo per il colore o le ricostruzioni?
Come in passato era stato fatto per Il padrino, abbiamo utilizzato delle immagini già esistenti con delle ricostruzioni storiche tutto intorno. Era quello che volevo ottenere: veridicità. Mi piace che la gente si riconosca nell’ambiente, che gli suoni un campanello in testa. Alcune immagini, come quella con Jodie Foster e il marito insieme, sono cartoline di quell’epoca. Addirittura c’era un dirigibile in quella foto, ma non ho osato metterlo perché l’immagine sembrava troppo carica.
Guardando il film ho pensato a Orizzonti di gloria di Kubrick. Lo ha preso come riferimento? Quali sono le sue suggestioni cinematografiche?
Sono un fan di Kubrick, ma Orizzonti di gloria non è il mio preferito. Prima di tutto perché attori americani interpretavano personaggi francesi, poi ho saputo che è stato girato in Germania, con un consulente tecnico tedesco, quindi le trincee erano troppo pulite e poco aderenti alla realtà. Inoltre tutte le comparse erano tedesche e questo mi è sembrato il colmo. Il mio film preferito, quello che ha cambiato la mia vita, è stato C’era una volta il west, di Sergio Leone. La prima volta che l’ho visto sono rimasto senza parlare per tre giorni e i miei genitori erano preoccupatissimi. L’ho rivisto recentemente su dvd e sono ancora dell’opinione che sia un capolavoro.
Nel film mostra questo fenomeno sociale, che tra l’altro pare fosse molto diffuso durante la Grande Guerra, l’automutilazione…
L’autore del romanzo si è ispirato a un aneddoto vero. Quarantacinque soldati della stessa compagnia si automutilarono per essere riformati. Venticinque di loro furono condannati a morte per fucilazione. Poi però l’esecuzione non è avvenuta per paura di un ammutinamento: il morale delle truppe era già a terra e la situazione era molto difficile. Quindi furono condannati ad essere gettati al di fuori della trincea, ma solo per una notte. Si suppone che siano riusciti a rientrare e ad avere salva la vita.
Una lunga domenica di passioni mescola la crudezza della guerra a una storia d’amore delicatissima. Com’è riuscito a far convivere questi due aspetti?
Ci ho riflettuto per lungo tempo. Mi è sembrato che l’idea migliore fosse quella di non mostrare troppa violenza o eccessiva crudezza nel film, per cercare di trovare il giusto equilibrio tra i due estremi.