Chiunque abbia iniziato a leggere Dylan Dog sin dagli anni Ottanta associa Carlo Ambrosini a Il lungo addio, quella struggente storia estiva di Tiziano Sclavi che con tanta passione Ambrosini aveva disegnato, quel racconto di Dylan così atipico, dove la paura risiedeva nell’incapacità di esprimere i propri sentimenti, un male che il mondo sembra non aver ancora imparato a combattere. E qualunque lettore Bonelli lo associa a iconici e raffinatissimi personaggi da lui creati.
Carlo Ambrosini se n’è andato da questo mondo proprio durante il Lucca Comics 2023, lasciando alcune storie già finite ancora da pubblicare. Sarà un lungo addio, come quello di una stella che si spegne, ma che continuiamo a lungo a veder brillare. Questo albo, La misura del mondo, per la serie regolare, poi ad aprile ci sarà una sua storia sull’Old Boy e infine una su Color Fest. Ed è difficile non pensare che questa sceneggiatura, così intrisa di crepuscolarismo, non sia un voluto addio.
La morte è la misura del mondo
Intendiamoci: di immanenza della morte è intriso tutto il lavoro di Ambrosini, basti pensare ai mestieri che svolgono i suoi Napoleone e Jan Dix, per i quali la morte è quasi condizione imprescindibile allo studio, ma qui c’è una malinconia dolce, un languore grottesco, un sorriso privo di speranza che non si avvertiva da molto e che richiama sul serio le atmosfere de Il lungo addio.
Una cover celebrativa è qualcosa di raro, ma Raul & Gianluca Cestaro hanno voluto rendere omaggio all’artista scomparso: il frontespizio del numero 449 della serie regolare di DYD è un compendio: ci sono Napoleone, l’investigatore entomologo, e Nico Macchia, il cavaliere di ventura ferrarese. Manca Jan Dix (il cui primo numero si intitolava proprio Morte di un pittore, tanto per sbatterci subito la morte addosso), ma forse quel personaggio in 14 albi lo abbiamo conosciuto in pochi. Colto, quanto Napoleone, raffinato, poco incline a rivelarsi subito, che trovava il suo apice nel numero 4, Il trionfo della morte, appunto.
Napoleone e Macchia guardano un orizzonte onirico, Dylan è seduto sull’orlo di un baratro insieme a un silenzioso Arlecchino, altro simbolo di morte per il compianto Carlo, e sullo sfondo fanno bella mostra mongolfiere e riferimenti proprio a Il lungo addio: la ruota panoramica e un’auto volante, a bordo della quale ci saluta proprio Ambrosini. Difficile non commuoversi, come difficile è non indulgere nell’epitaffio di un autore che tanto ha dato alla nona arte italiana.
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La misura del mondo è la statura di Dio
Chi è il protagonista di questo albo? Il nano armonico Slim, nato in un’epoca in cui essere diversi significava essere mostri? Il piccolo Donald, sempre affetto da ateleiosi, che sparisce misteriosamente? O è Gulliver, con il suo romanzo “per ragazzi”, acutissima e feroce critica alle società tutte? Ancora una volta la storia è un viaggio nel tempo, con episodi del passato che ricompongono il puzzle del mistero nel presente, con ricordi amari e altri più dolci, proprio come ne Il lungo addio. È impossibile non scivolare nella continua comparazione.
Ma Slim e Donald sono “lillipuziani”, come crudelmente vengono appellati i nani armonici, e quasi se ne fanno un vanto, di sicuro una identitaria peculiarità. Donald scompare dall’orfanotrofio e a rivolgersi a Dylan Dog è Lu (come la moglie di Ambrosini, l’illustratrice Lu Vieira, alla quale il disegno di Lu Bennet sembra proprio ispirato), che con il piccolo Donald sembra avere un legame molto speciale.
Il tratto di Ambrosini ha teso sempre più verso una stilizzazione violenta, sempre più distante dal realismo e dalla dolcezza delle linee che lo caratterizzavano negli anni Novanta. La sua è una linea grossa, di matita non appuntita, di segno violento e di mano pesante, che imprime sul foglio la rabbia malcelata dei personaggi e la violenza di una società che non li vuole. I neri però continuano a chiudere gli sfondi, ad appesantire l’aria irrespirabile, a dominare la vignetta, ora come un tempo. La rappresentazione chiara lascia spazio al grottesco, già mostruoso nel quotidiano: non c’è bellezza nel reale, e nemmeno nell’infernale, c’è solo lo sporco, la confusione, la visione caotica che si contrappone alle architetture.
Già perché in questo albo Ambrosini abbonda con la prospettiva, con i paesaggi urbani con punto di fuga, sfacciatamente teatrali e rinascimentali, quinte prospettiche che ancora di più vogliono sottolineare la misura dei personaggi, inseriti in quel contesto, impossibilitati a essere altro. Sfondi urbani che non lasciano scampo, così lineari e “giusti”, così a misura d’uomo. Già, ma di uomo “normale”.
È una storia potente, questa che ci descrive La misura del mondo, titolo mutuato dal romanzo di Daniel Kehlmann, in cui uno dei protagonisti, come Gulliver, era una esploratore. È la storia di chi è diverso e che in qualche modo sa di non essere da meno, ma che in quanto diverso si sottrae anche alle leggi di tutti. Se mi additate come diverso, non vedo perché dovrei sottostare a una legge che per tutti è uguale. L’orrore qui, ancora una volta, sta nel non detto, nei sentimenti che covano silenziosi, nei ricordi che affiorano, avanti e indietro, vividi come l’eterno presente. Quando arriva la prossima estate?