Che succederebbe se un giorno uno come Superman si sparasse un colpo in testa? Come reagirebbe l’opinione pubblica? E che succederebbe se non si trattasse di suicidio? Viaggio tra le mille ombre di Hollywoodland, il luogo più corrotto della storia del cinema.
Il 16 giugno 1959, l’attore George Reeves, dopo aver cantato una bella e malinconica canzone per la sua fidanzata, salì al piano di sopra della sua casa in California e si sparò un colpo in testa. Fu quella la definitiva fine di una star di Hollywood, un’icona, un mito indelebile per migliaia di giovani fan. Ma le cose andarono davvero in questo modo?
Dalla commistione dei generi al cinema, si sa, nascono molto spesso pellicole interessanti ed è curioso come negli ultimi anni si attinga sempre più spesso al noir, contaminandolo con i generi più disparati. Hollywoodland ha un confine molto labile, quello tra il thriller e il biopic – che la vita spesso ha certi gialli irrisolvibili che nemmeno il miglior romanziere riuscirebbe a inventare. Del resto, pur essendo questa una sceneggiatura originale, l’autore dello script Paul Bernbaum ha potuto attingere a piene mani dalla realtà così come dalla sua fantasia, essendo il caso molto ben documentato. La giovinezza, l’ascesa al firmamento delle star di George Reeves sono raccontati attraverso gli occhi sempre più interessati di Louis Simo, investigatore da strapazzo in cerca dell’unica cosa che tutti vogliono ancora oggi a Hollywood: la notorietà. Probabilmente come molti altri padri, Simo inizialmente non avrebbe dato un soldo bucato per Reeves, quel tale che interpretava Superman alla TV e piaceva tanto a suo figlio. Ma poi, spinto proprio dall’amore per il suo bambino, inizia a indagare e a ricredersi…
Mille altri titoli potevano essere pensati per questo film, ma non è un caso che la vecchia scritta sulla collina sia stata scelta a proposito: anche se nessuno dovesse aver mai sparato a George Reeves, l’assassino sarebbe comunque lei: la terra dei sogni.
Il premio Coppa Volpi: Roba da non credere!
Alla 63. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, praticamente tutti siamo rimasti sorpresi quando Ben Affleck è stato premiato con la Coppa Volpi come miglior attore. Non che abbia recitato male, intendiamoci. Il suo Reeves è delicato, scanzonato quanto basta, malinconico e misurato. Il fatto è che il protagonista ci sembra più Adrien Brody, l’investigatore Simo, che in quanto a bravura gli dà una pista… Lo stesso Affleck dichiarò, ironicamente, di aver accettato la parte perché “Come attore ‘in a supporting role’, ho molto meno da faticare rispetto alle parti da protagonista”. Ma forse la giuria deve aver pensato “Ehi, guarda com’è bravo Affleck a fare l’attore con poco talento”, senza rendersi conto che nel suo caso c’era ben poco da recitare. O forse ci sbagliamo noi? Dopo aver parlato con Affleck, ci sono persone pronte a giurare che non è affatto un cretino come sembra (taglio di capelli a parte) e non dimentichiamoci che al suo attivo ha anche un Oscar, vinto insieme all’amico Matt Damon per la sceneggiatura di Will Hunting, genio ribelle, non solo un Razzie Award per Gigli – Amore estremo. In effetti anche lui ha molto da spartire con George Reeves. Anche lui è in cerca di un tipo di fama che gli renda giustizia, anche lui ha appiccicato addosso un ruolo che non gli piace, anche lui sta tentando di riscattarsi interpretando film di qualità – e stavolta, diciamocelo, ha scelto davvero bene.
“Se devo essere sincero, la notorietà non mi è mai mancata”, ha confessato Affleck stabilendo così un parallelo profondo tra lui e il personaggio che interpreta. “Qualsiasi cosa faccia, vado a finire sui giornali, i miei film sono dei blockbuster… Solo che a un certo punto mi sono chiesto se era davvero questo che mi interessava. Per questo mi sono fermato e per un certo periodo non ho recitato. Adesso sono molto contento che il primo film dopo questa pausa sia stato Hollywoodland, era quello che mi ci voleva”. Del resto, questo potrebbe essere il lavoro per cui Ben riceverà le migliori critiche in tutta la sua vita, oltre a un premio che non si aspettava nemmeno lui. “Direi che questo mi è sembrato lampante fin dal momento in cui mi hanno fatto leggere la sceneggiatura. Ho scelto questa parte perché pensavo che sarebbe stata un’ottima occasione per me: era ricca, c’era molto da fare. George Reeves era un giovane estroverso, generoso, divertente, che diventò questa icona della mascolinità nell’America del dopoguerra anni ’50. Ma d’altro canto era un’anima molto triste e questo mi offriva un interessantissimo contrasto su cui lavorare. Ho avuto la possibilità di esplorare le sfumature e alcuni tra i più complicati aspetti di un personaggio. Ma del resto era così ben scritto, che sono convinto che, chiunque avessero scelto per questo ruolo, sarebbe stato perfetto. Sono fortunato che abbiano scelto me”.
Hollywoodland: Gli strani casi della vita
Certo può non sembrare un caso che Affleck sia stato scelto per questo ruolo, se non altro per la somiglianza fisica che ha con George Reeves. Lui però minimizza: “Ci somigliamo? Non ci giurerei. Buona parte del merito è dei costumisti e dei parrucchieri. Abbiamo usato gli stessi materiali, gli stessi vestiti, gli stessi, precisi modelli di occhiali e cappello per Clark Kent. È un’occasione abbastanza unica il dover recitare la parte di qualcuno del cui aspetto tutti hanno un’idea precisa: hai una quantità di pubblico che ti osserva attentamente per vedere se fai una qualche deviazione dalla realtà. I fan sono puristi, ma se riesci bene, ti danno uno standard molto alto. Quindi ho cercato più che altro di emulare Reeves, ho lavorato duro sulle piccole cose, come il colpetto sul cappello e l’occhiolino al pubblico. È stato divertente, grande!”.
Ma non è solo l’aspetto l’elemento in comune tra Reeves e Affleck. Il fatto che l’aitante Ben abbia già vestito la calzamaglia e interpretato un supereroe dei fumetti in Daredevil, gli ha dato non poche possibilità di essere scelto per la parte. Lo scorso settembre, Ben ha pubblicamente dichiarato di non voler mai più interpretare un supereroe sullo schermo. E tutti lì a pensare “Adesso che ha vinto la Coppa Volpi, inizia a tirarsela come pochi…”.
Ma la ragione è un’altra: “L’approccio che ho usato per interpretare questo film è stato quanto si doveva sentire umiliato Reeves. Indossare la calzamaglia doveva essere per lui un costante promemoria delle sue ambizioni frustrate. Non ha mai messo da parte il desiderio di diventare un attore drammatico, per questo diventò così triste. Una delle cose che ho considerato è stata l’esperienza di indossare quel costume tutto rosso e la maschera. Non potevo vedere nulla dalle fessure per gli occhi e il costume mi inibiva completamente i movimenti. Mi sentivo umiliato, proprio uno scemo. Mi è bastato ricordarlo. Inoltre i costumi di allora non avevano la sagoma dei muscoli, non erano rigidi. C’erano queste calzamaglie elasticizzate che aderivano completamente. Ti sentivi… esposto! Deve essere stato molto umiliante per lui. Infatti, con il procedere della serie e una presa sempre maggiore di controllo di Reeves sul personaggio, le scene con Superman in ogni episodio sono diminuite a favore di quelle con Kent”.
Hollywoodland: La morte di un mito
Per molti divoratori di fumetti, Superman rappresenta “il” supereroe. Quello con un senso di giustizia che assurge a simbolo, che supera quello di qualunque altro, che non è mai vendicativo e mette il bene degli altri prima del proprio. Fiumi d’inchiostro sono stati versati sulla parabola cristologia che potrebbe stare dietro a questo (vedi anche Superman Returns) e praticamente tutti lo danno come assodato (vedi, tra molte altre cose, la poderosa graphic novel Kingdom Come, dove Superman è “quel che di puro” a cui il mondo si appella). Immaginate come devono essersi sentiti i milioni di bambini quando hanno scoperto che l’indistruttibile uomo d’acciaio non c’era più. Non solo, ma che era stato tanto debole da suicidarsi!
“Quando ero bambino, vivevo per Le avventure di Superman!”, racconta lo sceneggiatore Paul Bernbaum. “Leggevo i fumetti, vedevo le serie animate, avevo comprato un costume… ma c’era qualcosa in Reeves… io sapevo che era un attore e che quello era solo un telefilm, ma pensavo anche che, se Superman fosse esistito davvero, sarebbe stato esattamente come Reeves. Lui aveva stabilito una connessione mentale con me e con tutti gli altri bambini che lo seguivano in TV. Oggi, da adulto, mi rendo conto che c’era qualcosa di davvero speciale in quel tipo. Per questo stavo armeggiando con questa sceneggiatura da anni: la vita di Reeves era colorata, ma anche tragica e io ho sempre desiderato poter drammatizzare il disagio di essere Superman e il convivere con l’incredibile impatto che ebbe con i suoi fan. Era un attore che voleva diventare una star e lo diventò, molto più grande di quanto potesse mai immaginare, ma solo per i bambini.”.
Questo aspetto è il motore che nel film fa iniziare le ricerche di Louis Simo. Suo figlio è deluso, amareggiato, brucia il suo costume di Superman – come probabilmente molti altri bambini fecero all’epoca – e Simo decide di investigare. Lo fa per lui. E per la fama, ovviamente.
“Credo che all’inizio Simo facesse in giro domande molto superficiali”, ha raccontato Adrien Brody, intenso protagonista delle vicenda. “Era un caso che stava sulla bocca di tutti e ovviamente gli avrebbe dato molta credibilità se fosse riuscito a smentire il rapporto di polizia. Ma lungo la strada deve aver iniziato a provare molta empatia nei confronti di Reeves come essere umano, quindi cercò anche in seguito di risolvere il caso per proprio conto”.
Certo, Brody non ha paralleli con il personaggio come Affleck, non è un investigatore e non si azzarda a tirare conclusioni sul caso: “Di solito declino ogni mia personale opinione su certi casi, anche perché credo che lo scopo del film non sia scoprire se Reeves fu ucciso, ma fare un quadro della situazione, di cosa potrebbe essere successo, e all’interno del quadro, c’è il ritratto di questo attore. Ci sono ancora un mucchio di domande senza risposta e io non ero lì al momento, quindi non potrei proprio avere le soluzioni”.
Forse una conclusione la potremmo dare noi, anche se è un po’ azzardata. Dopotutto, quello che un attore desidera è l’immortalità attraverso la fama. Reeves l’ha avuta. Ancora oggi, Le avventure di Superman sono divertenti, ironiche, uniche nel loro genere. Reeves non ha avuto mai quello che voleva, ma è andato sempre avanti. Per dirla con le parole dello sceneggiatore: “Ha vissuto tutto il tempo con il disappunto, il risentimento e la consapevolezza che essere Superman bloccò ogni possibilità che aveva di diventare il tipo di attore che desiderava. Ma ha anche sempre riconosciuto con impegno il posto che occupava nei cuori di milioni di ragazzini. Per loro, lui era Superman. E per me, questo fa di lui un vero eroe”.
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