“Il senatore Ted Kennedy è morto?” Questo rispondeva a Billy Crystal – Harry una giovane americana alla fine degli anni Ottanta alla domanda “dov’eri quando è morto Kennedy?”
Oggi i nativi digitali si fanno la stessa domanda parlando dell’11 settembre, ma per quanto la ferita sia stata di portata ben maggiore per il numero di vite, ancora oggi quell’unico cadavere che portava il nome di John Fitzgerald Kennedy resta una macchia indelebile nella storia americana. Perché nonostante l’impegno profuso dal senatore Warren nel farlo credere alla nazione, quel 22 novembre di sessant’anni fa non fu il solo Lee Harvey Oswald a sparare, cosa di cui non riesce a capacitarsi neanche Woody Allen in un’esilarante scena di Io e Annie che sottolinea il rimorso di chi è consapevole d’avere complottato suo malgrado contro il futuro.
Facendo un discorso meramente voyeuristico, la morte di J.F.K. vista attraverso l’obiettivo Super 8 (J.J. Abrams non lascia niente al caso…) di Abraham Zapruder è pornografia al limite dello snuff, immagini che fanno parte della Storia e che sono in grado di fornire la verità.
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Kennedy non fu ucciso da una pallottola magica, ma da un popolo impreparato al cambiamento, incapace di accettare la fine della segregazione razziale, della Guerra Fredda, l’entusiasmo della corsa allo spazio. Una nazione a cui era stata promessa una nuova Camelot, ma che a malapena conosceva la forma di una tavola rotonda.
La morte di Kennedy è un raro esempio di psicanalisi collettiva indotta dal cinema per il tessuto sociale e politico degli Stati Uniti. Non a caso ci sono voluti anni per elaborare il lutto, complici anche gli omicidi di Martin Luther King e Robert Kennedy, e il primo film in cui la teoria del complotto viene apertamente affrontata è opera di un cineasta che già negli anni Sessanta, al fianco di Robert Mulligan, aveva guardato l’America con occhi diversi, e che poco dopo le avrebbe raccontato perché il suo presidente Richard Nixon si era dovuto dimettere.
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Perché un assassinio? di Alan J. Pakula (ancora più chiaro il titolo originale, The Parallax View) è un film di un genere che non esiste più, la fantapolitica, così chiamato per giustificare l’assurdità di ciò che leggiamo sui giornali. Eppure, ancora oggi, la storia di questo piano per l’omicidio di un senatore ordito da una multinazionale è la versione più credibile di quanto accaduto nei mesi precedenti l’attentato di Elm Street.
Già, la stessa strada in cui Wes Craven faceva operare il mostro dei sogni di adolescenti su cui ricadevano le colpe dei padri. F.K., Freddy Krueger, manca la J. che avrebbe aggiunto Oliver Stone nell’affresco che ricostruisce il processo intentato dal procuratore Jim Garrison per invalidare la ricostruzione della commissione Warren.
Si è dalle parti del trentennale quando esce il film di Stone e ci si ricorda anche delle figure di contorno, come Jack Ruby, a cui diede corpo in un dimenticabile film Danny Aiello, o Jimmy Hoffa nel piccolo kolossal di Danny De Vito con un gigionissimo Jack Nicholson. Ma gli sguardi tangenziali sono forse quelli che fanno maggiormente riflettere.
Come quelli di Don Roos (qui sceneggiatore per Jonathan Kaplan) e Mark Waters, per esempio, che rispettivamente in Love Field – Due sconosciuti e un destino e La casa del sì danno due diverse interpretazioni di ceto dello Chanel rosa della First Lady, dalla Michelle Pfeiffer casalinga pasionaria di Dallas del primo, alla ricca psicopatica Parker Posey del secondo.
E a proposito di Jackie, quella di Pablo Larraìn interpretata da Natalie Portman è straziante nel suo essere una donna che cerca di fuggire dal suo stato di icona.
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Due volti dell’America delle caste, perché l’Unione è tutt’altro che Un mondo perfetto, lo sa bene Butch Haynes, assassino sociopatico in fuga che adotta un piccolo fantasma e gli insegna la vita nel miglior film di Clint Eastwood, iconoclasta che dopo oltre due magnifiche ore ci dice che un criminale e un presidente vivono democraticamente insieme solo per la mano di chi li uccide.
Sessant’anni dopo ci sono ancora tante domande senza risposta
Quelle più sensate le offre nella sua follia James Ellroy nel magnifico dittico letterario American Tabloid – Cinque pezzi da mille.
Il cinema si pone su un piano ben più neutrale, come dimostra Parkland, e fa piacere realizzare che in sei decadi il documento più sentito e giornalisticamente più valido lo abbia realizzato un grande giornalista italiano, il mai abbastanza celebrato e compianto Gianni Bisiach. I due Kennedy è ancora oggi una mirabile sintesi di inchiesta e intrattenimento. Comunque ben poca consolazione al fatto che cinquant’anni fa il mondo è cambiato e non c’è macchina del tempo cinematografica che possa dirci come sarebbe andata a finire.
C’è anche chi ha lavorato di fantasia
Basandosi sull’altrettanto fantastica tesi del killer unico. Lo ha fatto Stephen King nel suo magnifico 22-11-63, uno dei migliori romanzi della sua produzione più recente diventato poi anche una bella miniserie televisiva interpretata da James Franco. Il maestro del brivido narra di un viaggiatore nel tempo che cerca di cambiare il corso della storia fermando Lee Harvey Oswald. Una cosa già tentata dal professor Sam Beckett in un doppio episodio della serie di culto Quantum Leap, in Italia meglio noto come A spasso nel tempo.
Il tempo che non cura le ferite, certamente non quelle di Oliver Stone, che trent’anni dopo il suo film su Garrison torna a investigare sul quel giorno a Dallas nel documentario J.F.K. – Through the Looking Glass, titolo azzeccatissimo, perché solo nel paese delle meraviglie i sogni possono essere assassinati con una pallottola magica.
GUARDA JFK – Through the Looking Glass
Lo trovate su IWonderfull, dove c’è modo anche di rivivere il percorso politico di Kennedy attraverso tre documenti straordinari. Adventures of the New Frontier, Crisis e Faces of November racchiudono la morte di un unicorno che non era l’uomo, largamente imperfetto, ma la prospettiva di un mondo migliore. Ma come urlano gli orsetti colorati nelle Unicorn Wars di Alberto Vàsquez, “l’unico unicorno buono è un un unicorno morto”.